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luoghi e delle imprese. Perciò come i Greci hanno Ferecide, Ellanico, e Acusilas, così noi abbiamo Catone, Pisone e Fabio Pittore, che non sanno come ornare un’orazione (da poco infatti è stata importata presso di noi quest’arte); e purché si capisca quello che dicono, credono che bisogna soltanto ricercare la brevità».1

Questo passo ci dimostra che si conoscevano a Roma due modi di scrivere la storia: uno più antico, e più schiettamente romano, più rigidamente ufficiale, che non si elevava fino al racconto, ma si contentava di notare gli eventi, in uno stile diremmo quasi scheletrico se non stenografico; l’altro più recente, di origine greca, che apparteneva all’eloquenza, intesa non nel senso stretto, come arte del parlare in pubblico, ma nel suo senso largo, come arte del buon comporre e del narrare ornato.

Così infatti Cicerone, un po’ più innanzi, ritratta lo storico oratore:

«Non vedete che la storia è uno dei compiti maggiori dell’oratore, quello che richiede maggiore ricchezza e varietà di stile... Chi ignora che la prima legge della storia è di non tacere mai il falso e di dire sempre il vero, evitando il sospetto di parzialità? Questi fondamenti sono noti a tutti: i materiali son le cose e le parole. L’esposizione dei fatti richiede l’ordine dei tempi, la descrizione dei luoghi, e poiché negli avvenimenti importanti e degni

  1. De Oratore, II, 12.