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gna, non avvertendo o fingendo di non avvertire la corrodente ironia che talvolta brucia più di un’invettiva — l’ironia si può anche prendere sul serio — il seicento interpretò con una esegesi paziente quei passi in cui il corruccio di Tacito, per rivoltare i posteri e spargere sui suoi personaggi la cenere dell’infamia, aveva condensato amare, torbide e cieche accuse, come aforismi e precetti un po’ arcani della oscura dottrina della Ragion di Stato.

L’esempio più singolare e istruttivo di questa falsificazione sistematica è la metamorfosi che il Tiberio di Tacito subisce nella mente dei suoi maggiori ammiratori del cinque e seicento. Tacito vede in Tiberio una specie di mostro, di cui egli vuol dipingere l’aspetto fosco, perchè la posterità ne provi orrore e lo odî in eterno. Il suo ritratto arcigno e irreale come un simbolo del male e della perfidia, può star piuttosto nel catalogo delle creazioni romantiche che nella lista dei personaggi storici, vissuti per davvero. Ad ogni modo la pittura, che gli attribuisce delitti e vizi immaginari, se è falsa, è potente, e i tacitisti del cinquecento e del seicento trovando, nel loro autore, un principe in cui la dissimulazione, la segretezza, la perfidia, l’ipocrisia, la decisione, si uniscono in una sola fusione; un Principe, che si impadronisce con l’astuzia del governo e fonda una dinastia, cominciando la sua carriera con un fratricidio e due avvelenamenti; un principe che sacrifica il nemico alla propria vendetta, il potente alla propria diffidenza, il sicario alla propria prudenza; un Prin-