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ficata continuamente da mani invisibili, sopra qualche pianoforte.
Ora nevicava più fitto, la scala armonica, che per quel salto di nota si vestiva di una innaturale e pensosa tristezza, veniva a partecipare alla nevicata come se ne fosse l’espressione musicale. Le note, che si succedevano regolari, distaccate e granulose, sembrava che volessero disciplinare, con l’esempio del loro buon ordine, la folle discesa dei fiocchi di neve; e, d’altra parte, per le immagini, che suscitavano, dei tasti bianchi, parevano anch’esse come dei fiocchi raggruppati e induriti, perchè sciogliendosi e ricoagulandosi rapidamente una dopo l’altra, componessero il canto profondo, che non riusciva a cantare la massa barbara della neve. E più che un pezzo vero e proprio, quel salire e scendere come di un’anima che imprigionata in quelle note da una volontà superiore, si divincolasse, acquistava nella notte un’andatura ieratica e un accento straziante. Io rimasi a lungo immobile, per aspettare, nel correr liscio delle note, il salto della settima, da cui veniva propriamente quel gemito umano.
Allora, mentre con ansia struggente contemplavo la facciata impassibile di quella casa, in cui qualcuno suonava, mi ricordai l’osservazione di uno scrittore francese, che potrebbe es-
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