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S U G L I
INTIMISTI
FRANCESI
Una sera salutai l’amata per l’ultima volta, con quella gioiosa disperazione delle ore definitive, che rende i gesti con cui accompagniamo un addio, a noi stessi scultorei. Fuori nevicava. Ma benché mi convenisse andare «come un automa per le vie» m’accorsi, con un certo stupore, che imboccavo le strade con la sicurezza di chi vive tranquillamente. Quel silenzio e quel deserto, dentro cui ravvolgevo la mia sognante disillusione, mi opprimevano, sicché, per provare se l’esistenza del rumore fosse ancora possibile, mi misi a gridare a gran voce delle parole, a canticchiare delle frasi di musica, che, quando mi interrompevo, si perdevano nella neve senza risonanza, soffocate in un attimo nel silenzio bianco, come quando si mette la mano sopra un bicchiere tremante di musica.
Allorché, a un tratto, m’accorsi che alla disperazione veniva aggiungendosi un’inquietudine salita in me dal profondo delle abitudini, e provocata, con mio sdegno, dalle scarpe di vernice, che si riempivano di neve. E quella uggia assurda, che in una giornata comune avrei accolto naturalmente, mi indispettiva, per quella sua pretesa di non ammettere l’anormalità dell’ora.
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