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del loro mondo politico sfidano le pene dell’inferno e del Purgatorio:

«Non t’incresca restare a parlar meco;
Vedi, che non incresce a me che ardo.
. . . . . . . . . . . . .
Dimmi se i Romagnoli han pace o guerra.»

Inferno, XXVII, 23-28


Vivamente desideroso di lasciare la sua orma nel mondo, avido di consensi:

«Come s’avviva allo spirar dei venti
Carbone in fiamma, così vid’io quella
3Luce risplender ai miei blandimenti.»

Paradiso, XVI, 28-30


«E il tronco: Sì col dolce dir m’adeschi
Ch’io non posso tacer...»

Inferno, XXIII, 52-56


sacrifica ammirazione, fama, per dire quel che crede utile ai suoi ideali, attaccando la Chiesa e i potenti, non solo nelle Cantiche, ma nelle Epistole e nel Convito — peggio, nella vita.

Durante il breve periodo in cui fu al governo spinse il sentimento della giustizia (quella rettitudine di cui parla nel Convito) fino ad esiliare Guido Cavalcanti, il suo migliore amico, e a sfidare lo stesso Bonifacio VIII. Tanta rettitudine gli costò l’esilio. L’uomo più onesto di Firenze fu condannato a morte come concussionario.


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