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volume postumo di Sermoni sacri e morali (Milano, 1844).
I cultori delle lettere lamentano lo scarso numero delle sue prose che avrebbero potuto formare
Altri vegliò, che al predator famelico
Incustodita non lasciò sentiero,
Ond’ei deluso per obliqui covoli
Lontan l’uggia più fiero.
Altri vegliò, che d’ogni cor con l’arbitra
Parola in mano si tenea le chiavi,
Fosco di nube paurosa o rorido
Di lagrime soavi.
Chè ben gli valse all’opra accorto eloquio,
Gentil costume, onor di culto ingegno,
E il pio saver, ch’alle produtte veglie
Raro tra suoi fea segno.
Ed ei la buffa delle notti e l’improbo
Pondo del giorno sostenea sol uno . . .
Eppur non taque, che non tace invidia
Giammai di lodo alcuno:
E l’acri punte de’ minuti bruscoli
Converse in cerri delle vette alpine,
E tinse i fiori del matin più limpido
Di bave serpentine.
Ma poi che morte infaticato e prodigo
Dell’alma grande innanzi sera il colse
E mite Iddio del suo perdon nel candido
Velo testè l’avvolse;
Di là, chè d’altro non gli calse, il memore
Pensiero al casto pecoril ridona,
De’ guai sudati e delle pugne assidue
Già campo ed or corona.
Di là saluta col sorriso e numera
L’agne che amate il riamar già tanto,
E meste e prone l’accerchiato tumulo
Rigar di sì bel pianto.