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scritti, come spontaneo e delicato il pensiero. Continuò quel genere di lirica concisa, filosofica, efficace di cui Parini aveva dato primo l’esempio. Scrisse altresì magistralmente di epigrafia, discusse con criterio e solidità di dottrina intorno alle belle arti, fu molto innanzi nelle lingue antiche e moderne, dettando in quella del Lazio squisiti versi sui più scabrosi argumenti. Nel muovere li ultimi passi verso il sepolcro riunì e dedicò a’ suoi scolari Alcune poesie (Milano, tip. Guglielmini e Redaelli, 1841) che bastano a provare come egli era degno di più alto grado, e fosse vittima del dovere e dell’avversa fortuna. Sono quasi tutte effusioni intime e spiranti molto affetto1. Si ha pure di lui un

  1. Noi riferiremo qui l’ode indirizzata a suo zio, proposto di Trezzo (a. 1828), come la sola che ricorda il nostro borgo:

    Se ove stipate più le turbe ondeggiano,
         Cui par che terra e cielo ancor sia poco,
         Modesta sì, ma di non basso augurio
                             Libera voce ha loco;
    Odi, o Pastor, cui per fallace indizio
         Il cor tenzona tra securo e incerto:
         Non è, non è l’ovil, che or prendi a pascere,
                             Qual si mentia, diserto.
    Chi fu l’ingrato, che di capri indocili
         Aperto ad ogni vento il finse nido?
         A tutte genti che menzogne aborrono,
                             Io menzogner lo grido.
    Vegliò ricinto il cor di bronzo triplice
         Altri che insidia non temea ribelle,
         E ad ogni occaso ripeteva il novero
                             Delle giurate agnelle.