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52 | fausto. |
Così sul romoroso
Telaio del tempo di mia man contesta
È di Dio la visibile
Inconsumabil vesta.
Fausto. O tu che scorri l’ampio inondo, Spirito affaccendato, — quanto io mi sento simile a te!
Lo Spirito. Tu somigli allo spirito del tuo concetto, non a me! (Sparisce.)
Fausto, grandemente abbattuto. Non a te? e a cui dunque? Io, immagine di Dio, non pur simile a te? (Si ode picchiare.)
Oh, desolazione! So chi è costui — egli è il mio coadiutore. Ecco mandatami a male la più bella ventura ch’io mi avessi mai. Tanla intensità di visione mi ha da essere distretta da quest’arido stropiccione! (Vagner entra in veste da camera, berretta da notte e una lucerna in mano. Fausto si rivolge dispettosamente da lui.)
Vagner. Scusatemi! — Io vi ho udito recitare; state voi a fortuna leggendo una tragedia greca? Io vorrei pur fare alcun profitto in declamazione, che oggidì è arte di grande effetto sugli animi. Ho udito magnificarla a cielo, e non di rado dire che un commediante potrebbe ammaestrare un paroco.
Fausto. Sì certo, quando il paroco fosse un commediante, come ben può alle volte dare il caso.
Vagner. Oimė! l’uomo che si sta perpetuamente intanato nel suo studiuolo e a pena vede un po’ di mondo nei dì delle feste, — e di lontano col cannocchiale; come potrebbe farsi atto a condurre gli uomini con la persuasione?
Fausto. Indarno vi assottigliate per saper come,