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spedienti non mancano, debbo dir chiaro e tondo, ch’io ne ho l’anima d’ora in ora più stizzita ed esulcerata, talchè oggimai il durarla così mi riesce insopportabile! Solo a parlarne, ne provo confusione e rossore. Converrebbe che i due vecchi laggiù pigliassero il puleggio, vorrei di que’ tigli che vedi far la mia residenza; que’ pochi e miseri tigli che non m’appartengono, mi attossicano il possesso di un mondo. Vorrei colaggiù, perchè nulla all’ingiro m’impedisse la vista, appiccare il fuoco a quegli arbusti, e schiudermi così un ampio orizzonte per contemplare quanto feci sinora, e per abbracciare con sola un’occhiata il capolavoro dello spirito umano, popolando, nel mio pensiero, tutti quest’immensi dominii.

Non la è forse questa la più aspra tortura: conoscere, nella strabocchevole dovizia, che pur qualche cosa ti manca? Il tintinnío della campanella, l’odor di que’ tigli, mi serrano il cuore com’io fossi entro la chiesa o già in sepoltura. Il volere dell’Onnipotente si fa strada persino su questi sabbioni: ho un bel farmi cuore, la piccola campana manda un suono, e io do nelle furie.

Mefistofele. È chiaro come la luce del sole che un fastidio mortale li avvelena la vita. Chi potrebbe negarlo? A qualsia orecchio dilicato, il rintocco delle campane è noioso e ripugnante. E questo maladetto din dan din dirin don che gravita continuo il sereno aere del vespero, si frappone ad ogni accidente, dalla prima abluzione fino alle esequie, quasi che fra din e don tutta quanta la vita altro non fosse che un sogno inutile e vano.