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458 fausto.

dimane — che è? che non è? — V’era un argine bell’e fatto. È da credere che vi fossero sacrificii di umano sangue, tanto e sì forte e angoscioso era il gridare che udia nottelempo, e così rosse scorrevano le acque dalla parte del mare: allo spuntar dell’alba ce n’avea un grosso canale. Gli è un empio, non v’ha che dire; la nostra capanna e l’attiguo boschetto gli fanno gola, e gli adocchia con tanta avidità che lo miri standoci da presso allargar le ali: e a noi poverelli ne tocca andarcene a capo basso.

Filemone. N’ha egli per altro offerta nel nuovo paese una terra molto bella!

Bauci. Di campi rubati alle acque non ti fidare poco nè assai; tienti cara la tua casetta sull’altura.

Filemone. Avviamoci alla cappella, dove ne fia dato contemplare l’ultimo raggio del Sole. Suonata la campana, piegato a terra il ginocchio, ci abbandoneremo con fervorose preci alla santa guardia del Dio antico.


UN PALAZZO.

Parco spazioso; canale navigabile.


FAUSTO, cadente per età va passeggiando sovrappensieri.

Linceo, guardiano della torre, parla colla tromba marina. Tramonta il Sole, e gli ultimi navigli entrano a corsa nel porto. Un lancione sta per imboccare il canale; i pennoncelli di vario colore ondeggiano al vento scherzosamente; gli alberi s’ergono in tutta la loro magnificenza; il pilota giubila pensando a te,