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412 fausto.

     Sveglie, rimonda, addossa e lega, miti
     Gli Dei pregando a sue fatiche e ’l Sole.
     Ma di sì forte amor l’effeminato
     Bacco e de’ voti suoi meno corante,
     Nelle siepi si cela, o nel secreto
     Di opache grotte ove in trastulli mena
     L’ore col giovin suo Fauno amoroso.
     Ogni gioia, ogni cura, ogni diletto,
     E tutte care visioni in fondo
     Covan pel Nume di ben cento e mille
     Urne capaci vagamente a cerchio
     Della sua chiostra gelida riposte.
     Tutti gli Dei frattanto, e primo il Sole,
     D’äer, di piova e d’infocati raggi
     Dolce stemprano umor dentro a’ racemi.
     Quanto la man del vignaiuolo industre
     Poteva un giorno, svegliasi repente,
     E si scote, e s’avviva: un insüeto
     Giù pe’ filari fremito trascorre;
     E qua e colà di mille gridi un grido
     Fuor de commossi pampini si spande.
     Gemon le corbe, il secchio stride, e delle
     Uve ammontate solto il grave pondo
     Le bigonce si sfondano. Robusti
     Garzoni poscia vêr l’immensa tina
     Frettevoli si traggono, col piede
     I vendemmiati grappoli pigiando,
     Mentre il licore porporin compresso
     Goccia, spuma, gorgoglia, e i cori adempie
     Di dolcezza e piacer. Attendi or quale
     Di crotali e di fistole d’intorno
     Alto, incessante strepito si desti.