Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/418

410 fausto.

Una parte del Coro.

     Noi sotto al fresco mormorio soave
     E al lene susurrar di questi mille
     Rami, e di queste spesse frondi, un riso
     Diffondiam pel creato, e nelle frasche,
     Ne’ talli che di fior tutti coverti
     Mostransi, e ne’ polloni e nelle gemme,
     Di mezzo al nostro folleggiar, le fonti
     Vitali aprendo, i flessüosi velli
     Orniam, qual più ne giova, onde rigoglio
     Abbia maggiore il bel regno dell’erbe.
     Cadono i frutti, ed ecco uomini e belve
     Assembrarsi, sospingersi, di loro
     Esistenza beati. Ecco, gelosi
     Di spiccarlo e gustarne, il roseo pomo
     Contendersi a vicenda, ed a vicenda
     Urtarsi, e grande insorger lite, quale
     Arder giả si mirò fra’ prischi numi.

Altra parte del Coro.

     Tutta al nostro poter serve la terra.
     Noi nel cristallo gelido di queste
     Rupi scoscese i nostri molli argenti
     Dolcemente rompiam, qual sia più leve

    di essere stato tratto fuori dal sen delle Madri, delle idee, non per altro che a formare il corteggio di Elena, e a fare una parte secondaria nella fantasmagoria. Pantalide piglia ad esortare le compagne sicchè seguano la regina; ma esse ricusano di riporre il piede nelle Iadi: che la natura eterna le attira irresistibilmente, Goethe si ricorda qui la favola del pastorello Aci e della Ninfa Galatea (Vedi Ovid. Metam. XIII.); e queste, ramicelli frondosi vansene a stormire agitate dalla brezza; quelle, pampini verdeggianti, si traggono ad assistere a’ lavori della vendemmia: quali si versano in fiumi, e quali mormorano in rivoletti cristallini, e la sinfonia del panteismo accompagna le varie trasformazioni.