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396 fausto.

in sulla grossa, non saprei dirlo. Videro elle dormendo ciò ch’io vedeva ad occhi spalancati? nè pur questo io mel so, ed ecco il perchè mi reco a svegliarle. Ne andrà certo attonita e stupefatta la schiera giovanile, e voi quant’esse, barbassori di antico pelo che ve ne state assisi colaggiù in attesa che sia chiarito il prodigio. Su, su, levatevi! scotete le trecce, cacciate il sonno dagli occhi, non è più tempo da socchiuderli, e ascoltatemi.

Il Coro. Parla, e rivelaci qual portento s’è operato testè. Noi più d’ogni altra cosa siamo vogliosissime d’ascoltare ciò cui non sappiamo dar fede: però che ne dà noia e non poca il vederci continuo fra queste rocche.

La Forcide. Avete ora appena schiuse le palpebre, e già, mie fanciulle, provate tedio e disgusto! Eppure codeste cavità, codeste grotte e codesto fogliame, porsero, non ha molto, asilo e ricetto ad una coppia amorosa, da idillio, al nostro signore cioè ed alla nostra dama.

Il Coro. Come mai? In tal luogo!

La Forcide. Separati dal mondo, me sola appellarono ad esercitarmi per essi in ufizi tutti pacifici. Così onorata, mi tenni a loro da canto, d’altro in quel frattempo occupandomi, siccome ad una confidente conviensi. Io m’aggirava qua e là in cerca di radici, di corteccia, di muschio, esperta essendo d’ogni loro segreta virtù; di che eglino si rimasero soli.

Il Coro. Tu la ragioni, quasi che ci avesse fra questi dirupi intero un mondo, e boschi, e praterie, e laghi e ruscelli: che filastrocche ne vai tu narrando?

La Forcide. Sta in fatto, o inesperte creature!