Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/269


parte seconda. 261

della strega, puzzano di un’età che non è omai più. Come mai oggidì non aver che fare col mondo, ignorare che sia vuoto, nè altrui a vicenda insegnarlo? — S’io ben la intendo, la contraddizione palesavasi già molto prima; e avrei sin d’allora dovuto, contra que’ nauseanti sofismi, cercare uno schermo nella solitudine e ne’ deserti: e a non menare una vita affatto oscura e solinga, darmi da ultimo corpo ed anima a Satanasso.

Mefistofele. Dàtti in balìa dell’Oceano, immergili nella contemplazione dello infinito, e là almanco vedrai levartisi contro onda sopr’onda, e ti côrrà lo spavento, in faccia all’abisso spalancato. Colà almanco ti si parrà alcun oggetto che ti esalti e ti mandi contento. Nel cupo algoso fondo del mare tranquillo, scorgerai i delfini che guizzano, i nuvoli che discorrono, il Sole, la Luna, le stelle: ma nel lontano eterno vuoto, nulla ti fia dato scoprire, nè più udrai il suon de’ tuoi passi nè ti si affaccerà pur una zolla su cui adagiarti.

Fausto. Ta la ragioni come il più saputo mistagogo, che mai trappolasse alcun neofito di buona fede: qui però la cosa va tutto al rovescio. Mandandomi nel vuoto, mostri di volere che il mio senno ed il mio coraggio s’afforzino; ed io veggoti in questo usar meco siccome col micio, che si tragge a cavar colla zampa i marroni dal fuoco. Tuttavolta, son più che mai fermo a ciò chiarire; e nel tuo nulla, saprò, mi confido, rinvenir tutto.

Mefistofele. Oh quanto rallegromi io con te, prima che ci tocchi di separarci! M’accorgo ora