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parte seconda. | 257 |
UNA GALLERIA OSCURA.
FAUSTO, MEFISTOFELE.
Mefistofele. A che mi trascini tu per questi androni tetri e bui? Non evvi forse laggiù allegria che ci basti, o nel turbinio di una corte tumultuosa e bizzarra manca forse la occasione al motteggio ed all’impostura?
Fausto. Non parlarmi così, te ne prego; un tale linguaggio è per me vieto e fracido. Codesti andirivieni continui, tu gli adoperi a cansare di rispondermi. Però mi son tutti a’ panni, e pretendono ch’io non rifinisca dall’agire; e il Maresciallo e il Ciambellano non mi lascian pur respirare. L’Imperatore vuole e ad ogni costo il suo capriccio dė’ essere appagato — vuole che Elena e Paride gli sieno tratti dinanzi: il tipo dell’uomo e della donna, si strugge di contemplarlo sotto forme sensibili. Su, dunque, all’opra! non posso nè voglio essere, in questo, mancator di parola.
Mefistofele. La fu proprio mattezza e spensierataggine madornale prometter cose siffatte.
Fausto. Tu non sapesti, camerata, antivedere a che ne avrebbono i tuoi spedienti condotto: s’incominciò col traricchirlo, e’ convien ora trovar la via di sollazzarlo.
Mefistofele. Fai stima, tu, che la sia cosa da nulla? Eccoti ora nuove dighe da sormontare, e maggiori delle antiche. Ti vien data la briga di attingere a un tesoro strano ed occulto, e tu, da insen-