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142 fausto.

Fausto. Voi siete sola sovente?

Margherita. Sì; è una piccola famiglia la nostra, e non di meno richiede molta cura. Non abbiamo fantesca; e spetta a me il far la cucina, spazzare, cucire, lavorar di calzette, e correre qua e là a tutte l’ore; e mia madre guarda fil filo ogni cosa. Non propriamente che ve la stringa il bisogno; chè anzi potremmo far più che altri. Mio padre ha lasciato un bell’avere, una casetta e un orticello pochi passi fuor di città. Ora per altro io ho giorni tanto o quanto tranquilli: mio fratello s’è fatto soldato, e la mia sorellina è morta. Io ebbi per quella creatura i miei begli impacci, e tuttavia me li piglierei ancora tutti di buon animo, tanto io le voleva bene.

Fausto. Un angelo ell’era, se somigliava a te.

Margherita. Io l’aveva allevata ed ella pure mi voleva bene. Mio padre era morto di poco, quando ella nacque: e tememmo allora di perdere ancora nostra madre, tant’era ridotta a mal termine; e non si riebbe che passo passo a gran pena. E però dovè dimettere il pensiero di allattare quella povera bimba, e la trassi su io da me sola con latte ed acqua, e fu come mia. Io l’aveva tutto il dì in braccio, e la trastullava sul mio grembo; e a poco a poco si ravvivò, si abbellì, si fe grande e briosa.

Fausto. Certo tu allora provavi un dolcissimo contento.

Margherita. Ma e assai ore tristi ancora. La culla della piccina era a canto il mio letto, di modo ch’ella non potea pur muoversi, ch’io non mi destassi. Ed ora bisognava darle bere, or coricarlami a canto; e quando non voleva chetarsi, levarmi su,