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106 | fausto. |
ilarità ballano in giro entro un piccolo cerchio, come gattini che giuocano con la lor coda; e se non hanno il mal di capo, e l’oste fa loro credenza, ei sono senza fastidi.
Brander. Son giunti di poco in città; te ne avvedi subito a quella loro strana maniera. Non è un’ora che son qui, scommetto.
Frosch. Tu di’ bene il vero. Viva la mia Lipsia! Ell’è un piccolo Parigi, e dà l’ultima mano all’uomo.
Siebel. Che pensi tu che sieno que’ forestieri?
Frosch. Lasciane la cura a me, che con un bicchiere di vino io tiro lor di bocca ogni cosa, come cavare un ragno d’un buco. Penso che sien nobili, giacchè hanno l’aria di scontenti e di superbi.
Brandet. Ed io giocherei che son ciarlatani.
Altmayer. Fors’anche.
Frosch. Bada, bada com’io li burlo.
Mefistofele. Queste genterelle non hanno mai alcun sospetto del diavolo; ei le terrebbe pel collare che non se n’avviserebbero.
Fausto. Ben trovati, signori.
Siebel. Grazie; e voi siate i ben venuti. (Fra sè guardando di traverso Mefistofele.) Che ha costui che zoppica d’un piede?
Mefistofele. Siete contenti che ci mettiamo a sedere con voi? In cambio di buon vino, che qui certo non è da sperare, noi godremo della buona compagnia.
Altmayer. Siete molto dilicato, pare.
Frosch. Voi venite por ora da Rippach; non è vero? Siete forse rimasi a cena dal signor Giannotto?