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356 sciolti


Ha l’anima sul volto, e mai non seppe
contaminarla di beltá l’orgoglio,
né la leggiadra femminil menzogna.
Piú di un pastor de’ viraceli boschi
le chiede amor, ma sol per me, pietosa,
volge furtivi gli amorosi sguardi
e scioglie le soavi parolette.
Ahi! presto il nembo dell’etá nemica
svellerá questa pianta, ed una tomba
asconderá sotto un guancial di polve
tanta virtú, tanta bellezza! Isaro,
benché piú pigro il cinquantesim’anno
ti sferzi il tergo col cangiato crine,
prendi la cetra e all’avvenir consegna
la mia felicitá. Sappiano i tardi
nipoti che, in due nomi, un cuore solo
era Argene e Labindo, e che nel freddo
centro di morte, che ricopre il musco,
dormono insieme ineccitabíl sonno...
     Ma no, sospendi l’ingegnosa mano
su le devote al ver corde tremanti,
né di fallace onor tingere i versi.
Credea... Ma, folle! m’ingannar del volta
l’angeliche sembianze e la soave
querula tenerezza; e pur non era
figlia dell’alma, ma correa sul labbro
spinta dalle lusinghe e dal capriccio.
Giunge dal mare uno stranier. L’invito
alla mensa ospitai: s’empion le tazze,
favellando d’Argene. È la mia lode
fatale all’amor mio. La vede e n’arde:
ella langue e m’oblia, ride superba
del tradimento; io ne arrossisco e taccio.
Parte il rivai. Scordo l’offese: ingrata,
tollerante m’insulta, e s’abbandona
senza consiglio ad un novello affetto,
quasi gioco del vento arida foglia
nei brevi di del tempestoso autunno.
Sveglio la mia ragion, rasciugo il pianto,
i ceppi spezzo, mormorando, e fuggo.