dal Tebro all’Arno mi guidò nel muto 70laberinto di corte: un dio mi trasse
dal sentier periglioso, e in sen di Marte
improvviso mi spinse, ed ahi! la sorda
alle preci ed al pianto orrida diva
volea ferirmi, se all’acuto dardo 75non m’era scudo con la cetra Apollo.
Voi, cari boschi, alle cui rupi insegno
ora d’Argene a replicare il nome,
mi rivedeste. Era il mio foco Argene,
candida quasi latte, azzurri i lumi 80qual ciel sereno. Il nostro amor crescea
con il crescer dei giorni, allor che, svelto
dalle braccia di lei, tornai fra l’armi,
vittima infausta del voler tiranno
di un’adorata genitrice. Un lustro 85fra le falangi del sabaudo Giove
quella pace cercai, che alfin rinvenni
nel cheto asilo del paterno albergo.
Breve spazio di via dal mio soggiorno
divide il tuo: nel faticoso calle 90mi riconforta l’amicizia, e meco
pungono i fianchi e su la groppa stanno
del fugace destrier gli avidi affetti.
Ospite io salgo nell’armata ròcca
de’ padri tuoi. Tu m’accogliesti: in volto, 95nunzia del cor, non ti ridea la gioia,
ché su l’altera mal chiomata fronte
s’agitava una fosca nuvoletta.
Tentai tre volte sollevar le braccia
onde cingerti il collo, e oh Dio! tre volte 100cadder delusi gl’indecisi amplessi.
Gelai di téma che coperte avesse
la lontananza le memorie antiche
d’obliosa caligine profonda.
Ma il mio timore era un inganno: a pena 105tu favellasti, nei soavi sguardi
tutta l’anima tua candida apparve.
Teco sei lune, quasi lieto sonno,
mi fuggiron veloci. Altrove un cenno