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libro secondo | 153 |
XLIV
A Bartolomeo Cavedoni
(1792)
Nell’ima valle il nubiloso Cecia
dal lunense Appennin stridendo piomba,
e gli ampi vanni, di nevischio gravidi,
urta nei scogli e orribilmente romba.
Degli alpini torrenti il flutto rapido
la torbid’onda del Rosaro incalza,
e i svelti massi rotolando fremono
per la scoscesa ruinosa balza.
Si scuote al suono il pastorello attonito,
che sul monte supino alto soggiorna,
e con le Grazie la cipriaca Venere
fugge dai campi e alla cittá ritorna.
Sparve, Felice, la stagion pomifera,
e dall’artico ciel scese l’inverno:
l’anno che muore ti ammonisce, credulo,
che sperare non dèi d’essere - eterno.
Breve virilitá preme sollecita
vecchiezza, cara ad un erede ingrato:
l’altera schiatta dei mortali è fragile
erba, che presto inaridisce in prato.
Finché lice goder, godi da saggio
dal cortese destin l’ora concessa:
chi sa, le Parche se benigne aggiungano
alla somma dei dí quel che s’appressa.