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     Nemesi e Verecondia in ver l’Olimpo
     In bianco velo avvolte il casto viso.
     Rediran fra gli Eterni abbandonando
     L’uomo a sue dure e disperate angosce.
Or ai giudici miei narro una fola,
     Benchè saggi essi soli. Il nibbio un giorno
     Ghermì coll’ugne, e si portò alle nubi
     Un canoro usignuol Dai torti ugnoni
     Trafitto il miserello si lagnava,
     E lo spietato rapitor: «Che cianci,
     O caro? gli diceva: or sei caduto
     D’un più forte in balìa: nulla or ti vale
     Il tuo canto; verrai dov’io ti meno;
     Farò pasto di te se mi talenta,
     O ti libererò. Stolto chi vuole
     Contender col più forte: ei sarà vinto
     E n’avrà scorno e duol.» – Così gli disse
     L’augel che ruota i vanni agili e larghi.
Ma tu, Perse, del giusto odi la voce,
     Nè servire a nequizia: essa è funesta
     Al debole, neppure al forte è lieve

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