Pagina:Eneide (Caro).djvu/330

[1095-1119] libro vi. 289

1095Traggon, se non se quanto il pondo e ’l gelo
De’ gravi corpi, e le caduche membra
Le fan terrene e tarde. E quinci ancora
Avvien che téma e speme e duolo e gioia
Vivendo le conturba, e che rinchiuse
1100Nel tenebroso carcere, e ne l’ombra
Del mortal velo, a le bellezze eterne
Non ergon gli occhi. Ed oltre a ciò, morendo,
Perchè sian fuor de la terrena vesta,
Non del tutto si spoglian le meschine
1105De le sue macchie; chè ’l corporeo lezzo
Sì l’ha per lungo suo contagio infette,
Che scevre anco dal corpo, in nuova guisa
Le tien contaminate, impure e sozze.
Perciò di purga han d’uopo, e per purgarle
1110Son de l’antiche colpe in vari modi
Punite e travagliate: altre ne l’aura
Sospese al vento, altre ne l’acqua immerse,
Ed altre al foco raffinate ed arse:
Chè quale è di ciascuna il genio e ’l fallo,
1115Tale è ’l castigo. Indi a venir n’è dato
Negli ampi elisii campi; e poche siamo
Cui sì lieto soggiorno si destini.
Qui stiamo infin che ’l tempo a ciò prescritto
D’ogni immondizia ne forbisca e terga,

Caro. — 19. [731-746]