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272 l’eneide. [670-694]

670Del giovinetto mese appena spunta;
E di dolcezza intenerito il core
Dolcemente mirolla, e pianse e disse:
     Dunque, Dido infelice, e’ fu pur vera
Quell’empia che di te novella udii,
675Che col ferro finisti i giorni tuoi?
Ah, ch’io cagion ne fui! Ma per le stelle,
Per gli superni Dei, per quanta fede
Ha qua giù, se pur v’ha, donna, ti giuro
Che mal mio grado dal tuo lito sciolsi.
680Fato, fato celeste, imperio espresso
Fu del gran Giove, e quella stessa forza,
Che da l’eteria luce a questi orrori
De la profonda notte or mi conduce,
Che da te mi divelse; e mai creduto
685Ciò di me non avrei, che ’l partir mio
Cagion ti fosse ond’a morir ne gissi.
Ma ferma il passo, e le mie luci appaga
De la tua vista. Ah! perchè fuggi? e cui?
Quest’è l’ultima volta, oimè! che ’l fato
690Mi dà ch’io ti favelli, e teco io sia.
     Così dicendo e lagrimando intanto
Placar tentava o raddolcir quell’alma,
Ch’una sol volta disdegnosa e torva
Lo rimirò; poscia o con gli occhi in terra,


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