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114 l’eneide. [245-269]

245O cadeva o languiva; e la semente
E i frutti e l’erbe e le campagne stesse,
Da la rabbia di Sirio e dal veleno
De l’orribil contage arse e corrotte,
Ci negavano il vitto. Il padre mio
250Per consiglio ne diè che un’altra volta,
Rinavigando il navigato mare,
Si tornasse in Ortigia, e che di nuovo
Ricorrendo di Febo al santo oracolo,
Perdón gli si chiedesse, aita e scampo
255Da sì maligno e velenoso influsso,
Ed alfin del camino e de la stanza
Chiaro ne si traesse indrizzo e lume.
     Era già notte, e già dal sonno vinta
Posa e ristoro avea l’umana gente,
260Quando le sacre effigi de’ Penati,
Quelle che meco avea tratte dal foco
De la mia patria, quelle stesse in sogno
Vive mi si mostrâr veraci e chiare,
Tal piena, avversa e luminosa luna
265Penetrava, per entro al chiuso albergo,
Di puri vetri i lucidi spiragli;
E come eran visibili, appressando
La sponda ov’io giacea soavemente,
Mi si fecero avanti, e ’n cotal guisa


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