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La morte di Mazzini, avvenuta a Pisa, ov’egli era stato celato da diverso tempo sotto il nome di Brown, non poteva non promuovere qui una commemorazione e questa era facile degenerasse in tumulto, dopo che l’Internazionale si era rafforzata sotto la bandiera della Capitale e del Ciceruacchio di Raffaele Sonzogno. Ma non fu cosi. Il corteo, composto della «Legione romana del 1848», dei «Reduci», del «Battaglione Universitario del 1849», delle diverse .«Società operaie,» delle rappresentanze della Massoneria, dei «Liberi Pensatori,» dei diversi Circoli, dei «Reduci dei Vosgi con bandiera rossa, guidati da Ricciotti Garibaldi, traversò tutta la città, senza che nulla avvenisse di spiacevole. I cordoni del carro, sul quale troneggiava una statua dell’Italia, che incoronava di lauro un busto di Mazzini, erano retti da un lato da Benedetto Cairoli, dal Rusconi e dal Calandrelli, e dall’altro dal generale Fabrizi, dal generale Avezzana e dal Petroni. Sulla piazza del Campidoglio il corteo si fermò, e parlarono l’Avezzana e il Cairoli. Questi disse che Mazzini aveva avuto prima il Calvario e poi il Campidoglio.

Il busto di Mazzini fu preso dal carro e portato nella sala della Protomoteca, ove il Grispigni non era a riceverlo. Accorsero gli assessori Gatti e Renazzi, ai quali fu fatta la consegna, poi il corteo si sciolse senza nessun disordine, benchè certi nomi di martiri italiani posti nelle insegne intorno al carro, avrebbero potuto far saltare la mosca al naso ai più tolleranti. Difatti in quelle tabelle vi erano i nomi di Monti e Tognetti, di Orsini e Barsanti. Si disse che il Governo aveva provveduto pel mantenimento dell’ordine ed era vero. Ma si sarebbe potuto dire anche con più ragione che Roma era molto cambiata dal 1867 in poi e immensamente dal 1850, così che le dimostrazioni mazziniane lasciavano molti indifferenti, e il popolo non voleva saperne di agitazioni.

Alla cerimonia funebre per Mazzini tenne dietro la commemorazione degli studenti caduti nelle guerre del 1848 e 1849 e fu scoperta una lapide dal general Fabrizi, quale rappresentante di Garibaldi, che avevali guidati. Questa lapide si vede ancora nel secondo arco del portico dell’università, a sinistra dell’ingresso. Un’altra ne era stata posta nella chiesa di Santa Costanza, alla villa Potenziani, ov’erano stati sepolti dodici soldati uccisi nel 1870. Ma queste lapidi patriotiche non erano sufficienti pei romani, presi dalla mania di metterne in ogni luogo. Bastava che si dicesse che in una aveva abitato un uomo celebre, sia d’Italia o di fuori, perchè la lapide vi fosse murata. Si comincio con quella a Goethe, dettata dallo Gnoli, che fu posta sul palazzo Rondanini al Corso, di faccia all’ambasciata di Russia, poi se ne posero all’Alfieri alla Villa Strozzi al Viminale, a Rossini, a Donizzetti a tutti insomma i grandi che erano stati a Roma.

Il 17 aprile si riuni qui il congresso operaio. Esso si radunò all’«Argentina» e funzionò da presidente don Onorato Gaetani, deputato di Velletri, eletto contro Garibaldi, e presidente della «Società Operaia» di Roma. Il Tavassi di Napoli era l’organizzatore del congresso; 537 società, di cui egli aveva conoscenza, erano state invitate; 268 mandarono rappresentanti, 9 rifiutaronsi; 12 non poterono intervenire per mancanza di mezzi. Nella elezione del seggio presidenziale, fu eletto presidente don Onorato Gaetani e vice-presidente il senatore Rossi, fabbricante di Schio, e il Pericoli di Roma. Le società avevano mandato 150 quesiti da risolvere, ma soltanto 17 furono posti in discussione.

Una parola di pace sociale parti dal quel congresso, nel quale su votato il patto di fratellanza e una petizione da presentare alla Camera per l’istruzione obbligatoria. Anima del congresso fu Achille Grandi, che tanto si adoprò sempre per le classi operaie.

La Capitale, che era il giornale dei rossi, osteggiò il Congresso, e fu notato a Roma. Diceva che vi erano senatori e deputati, che non vi appartenevano. Il senatore era il Rossi di Schio, ca-