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nostra furono molto festeggiati. Il Principe Ereditario li accompagnò due volte alla caccia alla volpe. Qui a Roma i sovrani di Danimarca s’incontrarono con il principe e la principessa di Galles, che viaggiavano sotto il nome di conti di Chester, e ai quali la corte fece bella accoglienza. Vi fu a cura del municipio l’illuminazione del Colosseo e del Palatino e gli onori di quella festa furono fatti dalla principessa Margherita e dal principe Umberto.

A proposito della illuminazione del Colosseo nacque un incidente spiacevole. Il municipio manteneva tre bande e queste furono mandate all’anfiteatro Flavio per rallegrare la festa. Quando giunsero i Principi e i reali di Danimarca, invece di sonare la Marcia Reale, l’inno di Danimarca e il «God Save the Queen» i capi banda dettero retta alle grida popolari, insistentissime, così che durante tutto lo spettacolo non si udi suonar altro che l’«Inno di Garibaldi» e «Camicia Rossa». La cosa fu portata al Consiglio e il Grispigni, che funzionava da sindaco, destituì il Rosati, capo di una delle bande, e sospese un altro.

Roma non aveva mai veduto come in quell’inverno maggior numero di principi e di visitatori. Tutti quelli che solevano andare sul mezzogiorno della Francia o a Parigi, erano venuti qui, e gli alloggi mancavano addirittura. Oltre i personaggi che ho notati, fecero a Roma un soggiorno più o meno lungo la principessa di Rumenia, ora regina, il granduca di Sassonia-Weimar, il duca e la duchessa di Oldemburgo, la duchessa di Nassau, le principesse di Anhalt e di Lippe. Tutta questa affluenza di principi provava che in Europa si aveva fiducia che il Governo italiano fosse forte tanto da far rispettare l’ordine, e tutti questi testimoni della compatibilità di due poteri a Roma, tornando nei loro paesi, potevano asserire false tutte le voci che si facevano correre salla prigionia del Papa, e rassicurare le anime turbate dei cattolici.

Insieme col Re di Danimarca giunse a Roma il signor Fournier, ministro della Repubblica Francese presso il Quirinale, e il suo arrivo segnò una vittoria della politica estera del Visconti-Venosta.

Dopo l’occupazione di Roma, la Francia non era rappresentata presso il Re d’Italia altro che da un segretario di legazione, mentre presso il Papa aveva un ambasciatore, il marchese d’Harcourt, che abitava al palazzo Colonna, e si vuole brigasse non poco per favorire le mène dei clericali. È vero che da molto tempo era stato nominato al posto di Roma il signor de Goulard, ma quel diplomatico aveva lungamente tergiversato prima di partire, perché voleva attendere la discussione delle petizioni cattoliche, e fu lieto che gli fosse offerto il portafoglio delle finanze per non venirvi. Quelle petizioni sostenute dal generale du Temple e da monsignor Dupanloup erano tre: la prima, del signor Dulys dell’Havre, domandava che fossero fatte pratiche presso il Governo italiano acciocchè la chiesa di San Pietro, il Vaticano e le loro dipendenze, fossero radiate dal regno italiano e riconosciute come proprietà esclusiva della Santa Sede, e che dette dipendenze fossero aumentate da un territorio estendentesi sino al mare; la seconda, di alcuni abitanti di Prades, domandava all’Assemblea di protestare solennemente contro le violenze di cui si diceva fosse vittima il Pontefice; la terza era del signor di Chaulnes e domandava che la Francia protestasse contro gli attentati commessi dall’Italia contro la Santa Sede, non solo con parole, ma con un atto formale, che proteggesse in uno i diritti della Santa Sede, e l’onore della Francia, fatte le debite riserve per l’avvenire.

Le petizioni portavano la firma di 100,000 cattolici e il signor Thiers, se avesse permesso che fossero discusse, avrebbe certo eccitato a segno tale il risentimento dell’Italia, da spingerla alla guerra. Per nessuno era un mistero, che la Germania, che occupava ancora una parte del ter-