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Un breve periodo di tempo ci divideva dal momento delle feste, e a Roma tutti occupavansi dei preparativi e non si parlava d’altro. L’on. Giovagnoli aveva scritto un inno per celebrare la liberazione di Roma e fu bandito un concorso fra i compositori italiani per musicarlo. Intanto si fondeva con gran fretta il monumento a Garibaldi, si lavorava a quelli di Cavour, di Minghetti e di Cossa, e a terminare il ponte Umberto e le due colonne commemorative: quella di Porta Pia e l’altra di Villa Glori.

Roma non si spopolò come negli anni precedenti; molta gente rimase, e già sul finire d agosto la capitale aveva l’aspetto di una città in festa.

I Sovrani ai primi di settembre andarono in Abruzzo, ove si svolgevano le grandi manovre e ovunque ebbero accoglienza entusiastica dalle popolazioni, e riverente dal clero.

Ancora non era comparso nessun documento ufficiale che prescrivesse ai cattolici, devoti al Papato, quale condotta essi dovessero tenere in occasione delle feste del XX settembre. La Sacra Penitenzieria fu interpellata peraltro, e rispose all’ultimo momento non esser lecito, in via generale, promuovere siffatte feste o cooperarvi. Inoltre stabilì non essere permesso ai consiglieri comunali, ai membri di pubblici istituti, proporre ovvero approvare spese per le feste suddette, accettare il mandato d’intervenirvi. Ma oltre la negazione del voto, non si esigeva dai consiglieri cattolici nessuna esplicita protesta.

In quanto a coloro che rivestivano pubblici uffici governativi, o municipali, se si esigeva loro concorso in denaro e non lo avessero potuto rifiutare senza grave danno, la Sacra Penitenzieri aveva stabilito tolerari posse, purchè avessero dichiarato di non approvare opus malum, e ciò per evitare mali maggiori. La stessa tolleranza era concessa a coloro che dovevano partecipare al feste, purchè avessero dichiarato che lo facevano per non turbare l’ordine e la pubblica quiete, per non cagionare danni maggiori.

Nonostante questo soffio di tolleranza che veniva dall’alto, i cattolici ferventi si mostrarono ostili alla grande festa della liberazione di Roma, e alcuni Consigli comunali non vollero mandar qui i loro rappresentanti. Ma furono poche voci discordi nel grande immenso coro d’esultanza che il ricordo del più grande avvenimento della storia moderna suscitava nell’animo del popolo italiano.

Già ai primi di settembre non si vedevano per Roma altro che bandiere, che riproduzioni di quadri patriotici e un’aura di festa avvolgeva tutta la città popolatasi straordinariamente.

Il Sindaco era al suo posto per presiedere le feste e con cortese pensiero invitava il General Cadorna a volervi assistere. Ma il Generale ricusava l’invito con una lettera che dimostrò con il liberatore si scusasse quasi di essere stato l’esecutore di un fatto, di cui forse il cattolico faceva penitenza nella tomba volontaria, nella quale da tempo erasi rinchiuso.

Fra i 348 compositori che musicarono l’inno fu prescelto il maestro Luigi Ricci di Trieste e l’inno venne provato alla Sala Palestrina, ma non piacque.

Il 15 settembre furono inaugurate le feste. Nessuna penna potrà descrivere che cosa fosse bello Roma in quei giorni. Le vecchie mura erano ringiovanite dai colori della redenzione, che avevano infiammate le speranze nazionali, dai tre colori della nostra bandiera, che sventolava ovunque, come i cuori di tutta quella immensa quantità d’Italiani erano ringiovaniti dai ricordi della epopea patriotica, che ci aveva condotti a Roma. E quei ricordi si mescolavano alle speranze d’avvenire, come le fiammanti camicie rosse indossate dai vecchi e le uniformi dei cacciatori del