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siderava come una delle sue glorie, tanto è vero che al foglio d’ordine del Ministero di marina comparve per il padre Guglielmotti il seguente brano firmato dal ministro Racchia:

«Esso non militò nell’armata, ma richiamando con grande amore e con somma perizia alla memoria nostra le gloriose gesta dei marinari italiani delle età passate, ci sollevò gli animi a notabili ideali e ci spronò a continuare quelle glorie; perciò sento l’obbligo di rammaricarne la perdita, e di tributare ufficialmente un sincero omaggio alla sua memoria».

La morte del Guglielmotti fu seguita subito da quella del cardinale Laurenzi, uomo mite e conciliante, che si spense nei palazzo Torlonia in Borgo Nuovo e la cui perdita fu un vero dolore per il Papa, e da quella del Genala, ministro dei Lavori Pubblici, fulminato dall’apoplessia, mentre erasi recato a pranzo in casa dei suoi amici Marchesini, in via Lucullo. La morte del ministro, colpito in piena attività, giovane ancora, fu un ultimo crollo per il Gabinetto, che si cominciava a dire avesse la jettatura e la portasse all’Italia. Il Genala era uomo di grandi meriti, e di specchiata onestà. Più volte in questo libro ho avuto occasione di parlare di lui, ma l’indole dell’opera mi ha impedito di notarne tutte le benemerenze, come avrei voluto. Le ultime sue parole alla Camera erano state pronunziate per fare approvare il progetto di legge, che assicurava la prosecuzione dei lavori edilizi per Roma, e Roma rese alla sua memoria un tributo di stima e d’affetto.

La salma del Genala fu trasportata in una delle sale del Ministero, a San Silvestro, ed esposta al pubblico. Dopo un accompagnamento solenne, venne tumulata a Soresine, ove il ministro era nato e cresciuto.

Le finanze di Roma, anche sotto l’amministrazione Ruspoli, si mantenevano in buono assetto e il bilancio preventivo presentava una lieve eccedenza; esso era per altro sempre minacciato dalla Esposizione. Dimessosi da Presidente del Comitato il Baccelli, era stato eletto presidente l’on. Tommaso Villa, e vice presidenti Menotti Garibaldi, Vincenzo e Romolo Tittoni, il professore Bettocchi, e i senatori Monteverde e Morelli, in attesa delle concessioni che il Comitato sperava dal Parlamento.

A metà di novembre venne a Roma un numeroso pellegrinaggio italiano. Il Papa disse messa a San Pietro per i pellegrini, e colse quell’occasione per far loro un discorso molto significante, dal quale tolgo la parte principale. Il Papa disse:

«Sia concorde il vostro suffragio per assicurare che nei consigli delle provincie e dei comuni vengano tutelati, nel modo che è ora possibile, i vostri vitali interessi».

Queste parole erano un incitamento per ispingere i clericali alle urne nelle elezioni amministrative, e così vennero interpretate da essi con nuovo zelo.

L’illustre generale Cosenz, che aveva coperto per dieci anni la carica di Capo dello Stato Maggiore Generale, fu collocato in posizione ausiliaria, e il Re gli conferì la gran croce dell’ordine militare di Savoia. A sostituirlo fu chiamato il general Primerano, colui che nel 1870, essendo Capo di Stato Maggiore del Cadorna, aveva firmato la capitolazione di Roma.

Prima che si convocasse il Parlamento, il Ministero ebbe un’altra tediosa faccenda: lo sciopero dei telegrafisti. Dovevano capitar tutte le noie a quel povero Ministero! Difatti nella storia dell’Italia non c’era esempio di uno sciopero d’impiegati dello Stato. Quello sciopero durò più giorni e il ministro Finocchiaro-Aprile con molta energia provvide ai servizi, inviando militari all’ufficio telegrafico, e richiamando tutti i telegrafisti militari in congedo, ma tenne duro e la riforma da lui proposta fu attuata.