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bellissima fanciulla piemontese, con don Giuseppe Buoncompagni e in novembre furono celebrate altre due cospicue unioni nel patriziato. L’unica discendente del defunto don Enrico Barberini sposò il figlio secondogenito del marchese Sacchetti, portando al marito i beni e il titolo di principe di Palestrina, e donna Maria Bonaparte sposò un giovane ufficiale dell’esercito, il tenente Goiti. Di questo secondo matrimonio specialmente si parlò molto, perché pareva strano che un’Altezza avesse rinunziato a un grande nome storico per ubbidire a un dolce sentimento, cosa non troppo comune neppure nei nostri tempi di democrazia.

Il trasporto della Galleria Borghese dal palazzo al Museo della Villa, la vendita dei 475 codici della famiglia di Paolo V al Vaticano, suscitarono in città un gran rumore. Si conosceva la rovina di casa Borghese, ma non si credeva mai che fosse così grande. Del trasporto delle opere d’arte si occupò anche il Governo, non già della vendita dei codici, come alcuni chiedevano che facesse. E se ne occupò tanto più che per la rovina di altre grandi famiglie patrizie, i capolavori minacciavano di prender tutti il volo verso paesi più ricchi di denari, ma più poveri dal punto di vista dell’arte.

E quanto fosse in strettezze l’erario e per conseguenza il Governo si trovasse nella impossibilità di accrescere il patrimonio artistico della nazione valendosi dell’editto Pacca, lo provò alla riapertura della Camera il nuovo catenaccio sugli zuccheri.

Prima che i deputati tornassero a Roma era stata pubblicata una nuova lista di 25 senatori e della Camera vitalizia era stato chiamato a far parte anche il conte di Torino, il quale aveva compiuto i 21 anni.

Anche il Papa aveva creato due nuovi cardinali: monsignor Seppiaci e monsignor Ruffo-Scilla, suo maggiordomo e Prefetto dei S. Palazzi Apostolici. Al posto del neo cardinale, come maggiordomo soltanto, era stato nominato monsignor della Volpe.

Il Corso continuava ad abbellirsi, specialmente nel centro, ove il palazzo Fiano e quello Marignoli, ormai terminati mostravano le loro belle linee architettoniche, e sotto quei palazzi si aprivano negozi elegantissimi.

Già era riaperta la Camera, già il novembre volgeva alla fine e mentre il pubblico si appassionava per i dibattimenti del processo di Massaua, non si conosceva ancora il rapporto della commissione d’inchiesta andata in Africa in primavera. L’on. Imbriani presentò una interpellanza su! processo e con la sua solita violenza disse che il general Baldissera «era un reo confesso». Si venne a sapere che non era vero, come asserivano alcuni giornali, che bande intere fossero state soppresse; i giustiziati erano 94 in tutto, e il processo terminò con l’assoluzione del Livraghi, perchè fu riconosciuto che la sola esecuzione non giustificata era quella di Getheon, e non fu provato che l’imputato avesse reclamato la parte di preda di guerra del denaro del giustiziato.

Subito dopo conosciuto l’esito del processo, comparve la relazione della commissione nella Gazzetta Ufficiale. Essa riconosceva anormale lo stato della Colonia Eritrea quando il Baldissera era stato mandato in Africa, e difficile la posizione di lui. Ma riconosceva pure che con gli ordini dati egli aveva ecceduto nei suoi poteri, e che nessuna legge gli dava facoltà di fare quello che fece. Per questo non ne escludeva la responsabilità e riconosceva pure responsabili il colonnello Fecia di Cossato e il generale Orero della uccisione di Osman Naib.

Questi fatti erano lo strascico del periodo brutto della occupazione, ma in quel tempo le cose si presentavano sotto più lieto aspetto, e mentre qua commentavansi ancora e la sentenza del tribunale di Massaua e il lavoro della commissione, il general Gandolfi riceveva il giuramento di fe-