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sputò in terra. Il veterano, certo Vincenzo Malacotta, accortosi della cosa, chiamò le guardie, che condussero in questura, con molta fatica, i tre francesi che erano Michele Druse, seminarista, Maurizio Gregoire, avvocato ed Eugenio Choucary, redattore di un giornale clericale del Morvan.

La notizia si sparse subito per Roma; s’improvvisarono dimostrazioni ostili sotto le finestre degli alberghi ov’erano alloggiati i pellegrini, e questi, appena comparivano per le vie, erano accolti a fischiate. Molti a mezzogiorno erano già partiti, ma un’altra carovana giunse nel dopopranzo e questà pure fu ricevuta a fischi e anche con qualche sassata e bastonata.

Intanto una folla enorme di cittadini era andata a iscriversi al Pantheon, e fra le migliaia e migliaia di firme figuravano pure quelle del sindaco, di molti consiglieri comunali e provinciali, e di tutti i deputati presenti a Roma. Sui cancelli del Pantheon erano state legate alcune bandiere, fra cui quella del circolo «Giordano Bruno», e dentro il tempio echeggiavano inni patriottici frammisti a proteste. I dimostranti sapendo che a Sant’Ignazio doveva cantarsi il Te Deum, vi erano andati in massa, ma la chiesa era stata chiusa per ordine dell’autorità.

La sera vi furono lunghe e pacifiche dimostrazioni in piazza Colonna e altrove; tutte le case erano pavesate di bandiere e in maggior numero sventolavano dagli alberghi ov’erano i pellegrini, i quali avevano molta paura delle rappresaglie.

I figli del signor Harmel andarono a palazzo Braschi dal sotto-segretario di Stato, on. Lucca, per esprimere il loro profondo rammarico per il fatto del Pantheon, e il signor Drémont, presidente della Camera di Commercio francese, andava dal questore a manifestargli il rammarico della colonia francese di Roma.

Per buona sorte gli animi si calmarono e non avvenne nulla di grave, ma nelle città per le quali passavano i pellegrini per tornare in Francia, furono accolti ostilmente.

Il Sindaco telegrafò immediatamente a Monza deplorando l’atto inconsulto e proclamando la devozione di Roma alla Dinastia; qui non facevano altro che giungere telegrammi di protesta anche dai piccoli comuni, cosicché si può dire che i tre sciocchi pellegrini provocassero uno spontaneo e unanime plebiscito di devozione al Gran Re e di affetto per il figlio di lui.

Erano appena partiti coloro i quali vagheggiavano l’utopia della restaurazione del potere temporale, che giungevano in Roma i membri della conferenza per la pace, altra magnifica utopia.

Il 2 novembre vi fu la solenne inaugurazione della conferenza al Campidoglio, e il discorso inaugurale fu pronunziato dal Biancheri. Le sedute si tennero al palazzo delle Belle Arti e non furono tutte pacifiche.

I congressisti ebbero qui cordiali accoglienze, senza distinzione di nazionalità. Al Costanzi fu data in loro onore una rappresentazione di gala; il principe Odescalchi e il Duca di Sermoneta li invitarono nei loro palazzi; i musei Capitolini furono illuminati e il Bonghi dette un ricevimento al l’Associazione della Stampa. Ovunque trionfava la bella baronessa Suttner, l’autrice del romanzo «Abbasso le Armi», che fu scritto con l’intendimento di operare in pro della pace ciò che la «Capanna dello zio Tom» fece in pro degli schiavi. Ma l’autrice non ha raggiunto l’effetto voluto.

La Corte tornò qui il giorno 10 e il 13 i Sovrani partirono in forma ufficiale per Palermo, ove doveva inaugurarsi l’Esposizione. Il Presidente del Consiglio accompagnò i Sovrani, ma se le LL. MM. ebbero nella capitale della Sicilia entusiastiche manifestazioni, egli non potè lodarsi delle accoglienze dei palermitani, dove il Crispi godeva ancora una grande popolarità e si faceva quasi un carico all’on. marchese di Rudinì di occuparne il posto.

Era già avvenuto in quell’anno il matrimonio di donna Arduina Valperga di San Martino,