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di lassù e dalle case ove molti si sono rifugiati, piove sui soldati una grandine di sassi, di pietroni, di lavagne e di piatti. In via Emanuele Filiberto i rivoltosi formano con carri e con masserizie le barricate, e in altri punti punzecchiano con coltelli, con chiodi, con lime i cavalli dei soldati, che sono riusciti ad asserragliargli. Ad ogni carica fuggono, si sbandano, e subito tornano compatti a insultare e molestare i soldati.

La Camera teneva seduta in quel giorno, e gli on. Sola e Maffi interrogarono sui fatti di piazza Santa Croce in Gerusalemme il Ministro dell’interno, il quale rispose che le provocazioni erano partite dagli anarchici, e che i soldati avevano dato prova di grande pazienza. L’on. Ferrari prese la parola per accusare un ufficiale dei carabinieri di aver fatto inginocchiare l’on. Barzilai e di avergli gridato «vigliacco», dopo averlo ferito con una piattonata alla testa. Il cappello del deputato di Roma fu portato alla Camera ed esaminato, ma dalla vivace polemica che sorse rispetto a quel fatto, si venne ad appurare che l’ufficiale non aveva riconosciuto nel fuggiasco il Barzilai, e tanto meno lo aveva fatto inginocchiare.

Per quei fatti dolorosi furono praticati più di 200 arresti. Anche Amilcare Cipriani, ferito alla testa, era tenuto in arresto in una casa in via Foscolo. Fra gli arrestati vi era il Moscardi, che vantavasi dell’uccisione della guardia Raco; il carrettiere Piscistrelli fu un’altra delle vittime. Tutti gli arrestati erano armati, e certi che avevano il revolver possedevano buona provvista di munizioni, segno certo che la ribellione era stata preparata.

Mentre su all’Esquilino avvenivano questi fatti, e tutto quel quartiere era guardato dai soldati, e le case piantonate, nel resto della città regnava ancora il solenne silenzio del pomeriggio, che aveva infuso tanto pànico nei cittadini, e s’ignorava che cosa fosse avvenuto, nè speravasi di aver notizie nella serata, perchè le tipografie erano chiuse, e nessun giornale poteva pubblicarsi per la vacanza del personale.

Verso le dieci di sera, nelle vie deserte ancora, si udì gridare il Popolo Romano, e tutti si arrischiarono a scender dalle case per aver notizie. Il giornale aveva fatto un supplemento con la narrazione dei fatti, e quella lettura non confortò gli animi, perché si capì che tutta la città, sguarnita di guardie e di soldati, era stata a un punto di essere invasa dalla turba furente, e che i tentativi di ribellione potevano ripetersi.

Nella notte per le vie si udiva solo il passo cadenzato dei pattuglioni, e la mattina dopo la città presentava ancora l’aspetto desolante del giorno prima, con le botteghe e i portoni chiusi, e ogni tanto avveniva un fuggi fuggi dei pochi passanti, motivato dalla notizia che i rivoltosi dal ponte di Ripetta o da un altro punto correvano verso le strade centrali.

Fortunatamente non accadde altro, e i 200 arrestati poterono esser trasportati nella notte alle carceri di Termini.

Peraltro fra essi mancava l’ultimo oratore del comizio, colui che aveva incitato gli adunatí a far l’inconsulto tentativo, quel giovane qualificatosi per Venerio Landi. La polizia si diede a cercarlo con tutto l’impegno possibile e pochi giorni dopo lo scopriva nella locanda della Campana, nel vicolo omonimo, mentre stava per lasciar Roma, e scopriva pure che egli chiamavasi Galileo Palla, già noto nei fasti dell’anarchia, e che era di Aulla, presso Massa.

Già Roma, dopo due giorni aveva ripreso l’aspetto solito, ma dalle discussioni avvenute alla Camera non aveva acquistato maggior fiducia che per il passato nell’opera del Nicotera come ministro dell’Interno. Da quelle discussioni si era pure rilevato che gli altri ministri non dividevano le opinioni di lui sulla politica interna. Però sulla mozione dell’on. di Camporeale esprimente am-