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Applausi generali, imprecazioni al ministro, gridi che rivelavano in alcuni degli uditori l’impazienza di mandare subito in effetto le minacce, echeggiarono nella sala. Cipriani, però, che si diceva avesse promesso al Governo di non fare accader nulla, volle rappresentare di frenatore delle popolari impazienze di rivendicazione sociale, e aggiunse:
«Non spingo nessuno alla rivolta, ma se siete minacciati dalla cavalleria, ricordatevi che siete uomini. Non provocazioni da parte nostra, ma calma e tranquillità, con le quali potremo raggiungere i nostri ideali».
Queste parole erano pronunziate la sera del 21, come ho detto; alle 7 e 11 minuti della mattina del 23, cioè appena 36 ore dopo, su Roma passava come una vampa d’incendio seguita subito da uno schianto terribile, che fu udito fino nei castelli.
La gente in sulle prime non capiva nulla e sgomenta dal rumore, dallo scricchiolio dei vetri che cadevano in frantumi, si gettava nelle vie, nelle piazze. Chi credeva fosse scoppiato il gazometro, chi pensava al terremoto.
Roma era avvolta da una nube di fumo densissimo, e per terra si vedevano scheggie di mitraglia, pezzi di cartucce e sugli abiti si notavano le tracce del salnitro. Si capì allora trattarsi dello scoppio di una polveriera e la folla che correva in piazza del Popolo per giungere al gazometro, vedendo che la nube nera diradandosi sulla città, rimaneva addensata in direzione di San Paolo, capì che doveva esser saltata la polveriera di MonteVerde, vicino al forte Portuense, e in quella direzione si rivolse.
Ecco che cosa era avvenuto in quel luogo assai distante dalla città. Alle 6 1|2 la sentinella di guardia alla polveriera, udì nell’interno di essa uno scricchiolio. Essa avvertì il tenente Edoardo Gabrielli del 12° fanteria, distaccato dal forte Portuense, il quale a sua volta dette avviso del fatto al capitano Pio Spaccamela, che insieme con l’ingegnere del genio civile de Romanis, erano andati ad ispezionare i lavori. Il capitano capì subito di che si trattava, cercò nel forte la chiave della polveriera senza poterla rinvenire, tentò di aprire la porta, ma tutto fu inutile. Senza perdere il sangue freddo e conscio del gravissimo pericolo, chiamò allora a raccolta il picchetto composto di 7 bersaglieri, che era a guardia del forte, e gli ordinò di gettarsi un ordine sparso nella campagna per impedire alla gente, che a quell’ora soleva recarsi al lavoro, di avvicinarsi. Egli si allontanò l’ultimo insieme col tenente Gabrielli e col caporale Cattaneo, ed erano appena a un centinaio di metri quando avvenne lo scoppio. Il de Romanis rimase morto, lo Spaccamela orribilmente ferito alla testa, il Cattaneo alle gambe, il Gabrielli più leggermente e nonostante l’avviso dato ai lavoranti, vi furono altri 230 feriti, perché la polveriera conteneva 265,000 chilogrammi di polvere, come si seppe di poi.
I danni fuori e dentro la città enormi. San Paolo, il Mattatoio, il quartiere del Testaccio ne risentirono più direttamente, perché più vicini, ma anche in Roma ve ne furono, e rilevantissimi. In tutte le case volarono in frantumi i vetri e molte pareti precipitarono.
La polveriera, alla quale lavoravano diversi operai, era stata chiusa alle 3 1|2 del giorno precedente, senza che fosse osservato nulla di notevole; da quell’ora nessuno vi era più penetrato, trattavasi dunque di una sventura, di un caso, o lo scoppio era doloso?
Quest’ultima ipotesi era quella generalmente accettata dopo le parole pronunziate da Amilcare Cipriani, dopo quel fermento che si notava fra gli anarchici negli ultimi tempi; e il timore che un altro tentativo si potesse fare nelle polveriere che circondano Roma, teneva tutti agitati.