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introdotto monsignor Pujol e il cardinal Mermillod, che il principe aveva conosciuto molto in Isvizzera. I Sovrani avevano da poco lasciato, la sera del 17, l’albergo di Russia, quando giunse al Quirinale la notizia della morte. Il Re e la Regina tornarono immediatamente presso la principessa Clotilde e vi giunsero pure i figli e gli altri parenti.
Il Re dette tutte le disposizioni per i funerali e ordinò un lutto di corte di 90 giorni. Senato e Camera commemorarono il principe con affettuose parole, il Sindaco in Consiglio disse che Girolamo era stato «il vincolo d’amicizia fra noi e la Francia.»
Il duca di Sermoneta in persona stese l’atto di decesso e i testimoni furono due cavalieri dell’Annunziata: l’on. Crispi e il generale Cosenz.
Il 19 marzo, alle otto di mattina il Re, la Regina, le duchesse di Genova e Aosta, il duca degli Abruzzi, che doveva rappresentare il Sovrano ai funerali, e tutti i Bonaparte, udirono la messa detta da Monsignor Anzino, presente cadavere. Poi il Re e i Principi accompagnarono la salma fino al carro funebre. L’associazione fu data a Santa Maria del Popolo, e da quella piazza fino alla stazione era schierata la guarnigione per rendere gli onori. A mezzogiorno i Sovrani accompagnarono le principesse Letizia e Clotilde alla ferrovia, ed esse salirono nel treno che doveva trasportare a Torino, e di là a Superga, il corpo del principe.
I disoccupati si agitavano continuamente; il 17 fecero una dimostrazione in piazza di Termini con l’intenzione di andare altrove, ma ne furono impediti dalla forza, che fece molti arresti; il 19 si riunirono di nuovo in piazza Dante, ma i funerali del principe Napoleone non permisero che l’assemblea fosse troppo numerosa, perché la solita folla di curiosi, che accresce ogni dimostrazione, era attratta dallo spettacolo del sontuoso corteo funebre.
Più imponente di tutte le precedenti riunioni riusci il Comizio del 5 aprile in piazza Santa Croce in Gerusalemme, ma il Nicotera, che non voleva impedire quelle pubbliche assemblee, spiegava un grande apparato di soldati, per tenere a dovere i dimostranti. Questi trovarono in piazza schierati 1500 uomini di fanteria, 300 cavalleggeri, 100 carabinieri e 50 guardie e se i discorsi dei disoccupati furono violentissimi, la loro volontà di avvalorarli con fatti venne paralizzata da tante baionette.
Il Ministro dell’interno aveva intrapreso un viaggio, e trovandosi a parlare a Milano con i rappresentanti di un circolo di operai, aveva detto che ai rivoltosi avrebbe usato il riguardo di farli caricare dalla cavalleria, per non esporli troppo da vicino alle baionette.
Queste parole dettero animo ai socialisti e specialmente agli anarchici, i quali capirono che il ministro li avrebbe lasciati fare.
Però i moti quasi generali che si annunziavano per la festa operaia del 1° maggio, e forse le pressioni dei suoi colleghi del Ministero, spinsero l’on. Nicotera a diramare ai prefetti una circolare per proibire la solennità operaia. Ma già le intese erano corse, e quella circolare difficilmente poteva trattenere i male intenzionati.
Amilcare Cipriani, che in quel tempo godeva di una popolarità grande fra le turbe dei rivoluzionari, venne a Roma e tenne una prima conferenza agli anarchici nella sala di San Bartolomeo dei Vaccinari e una seconda il 21 aprile nella sala dei Reduci dinanzi a 150 fra anarchici e socialisti. Egli volle rispondere alle parole incautamente pronunziate dal Nicotera a Milano, dicendo:
«Noi non temiamo le minacce d’un ministro dell’interno. Venga pure la cavalleria di questo signor Nicotera, i suoi sbirri, i suoi sgherri, noi faremo inghiottire tanto piombo a chi toglie la libertà.
«Ebbene, andrò io dal signor Nicotera e vedrò se in faccia a me avrà il coraggio di espellermi».