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componeva di due reggimenti di fanteria (cacciatori), di uno squadrone di cavalleria, di una brigata di cannonieri, di una compagnia del genio, di una di sanità e di un’altra di sussistenza. Oltre il generale di San Marzano, partivano sotto gli ordini di lui i maggiori generali Genė, Lanza, Cagni, Baldissera, comandanti di brigata, i colonnelli Torretta e Barattieri, comandanti di più battaglioni.

Prima che quel corpo, creato con i 20 milioni votati nell’estate partisse, fu promulgato un decreto che dava facoltà al comandante in capo dei presidii d’Africa di espellere i giornalisti dalla colonia, e proibiva la trasmissione dei telegrammi in cifra.

Il corpo era costituito di volontari reclutati fra i soldati e tanto numerose erano state le domande, che si era dovuto fare il sorteggio in ogni reggimento per non scontentare i richiedenti., Un nobile slancio si era impossessato dell’esercito; e chi era stato in Africa voleva tornarci nonostante i disagi, per vendicare i morti di Dogali. Anche il generale Genè, al quale dopo il disastro era stato inflitta la punizione del richiamo, aveva chiesto di tornare in Africa per combattere.

Col 31 dicembre spiravano i nostri trattati di commercio con la Germania, con l’Inghilterra, con l’Austria-Ungheria, con la Svizzera, con la Francia e con la Germania.

Quelli con le due prime potenze, non essendo stati denunziati, nè da una parte nè dall’altra, s’intendevano protratti fino al 1892; ma i quattro, già denunziati, occorreva rinnovarli, e con la Francia e con l’Austria-Ungheria si aprirono trattative fino dal settembre. I commissari nostri per quei trattati erano Luigi Luzzati, il comm. Ellena e l’on. Branca. Essi si erano abboccati qui alla Consulta con i delegati dell’Austria-Ungheria, che erano Michalovich, Kalchberg e de Glanz. Le conferenze erano state inaugurate dal presidente del Consiglio, e vi avevano assistito l’ambasciatore de Bruk e i ministri Magliani e Grimaldi; dopo i commissari austro-ungarici tornarono a Vienna a riferire, e i nostri andarono a Parigi ai primi d’ottobre, e si accorsero che vi erano ben poche speranze di concludere il trattato.

In Francia l’ostilità verso di noi non si palesava soltanto negli atti del Governo, ma anche nel sentimento nazionale. Al di là delle Alpi, dopo il 1870, eravamo considerati come nemici e come tali trattati.

La nostra alleanza con la Germania, l’occupazione di Massaua, non avevano fatto altro che render più profonda quella ostilità, tenuta viva da tanti altri fatti, fra cui non ultimi l’astensione dell’Italia ufficiale dalla Esposizione, che si preparava a Parigi per il 1889, la nomina dell’on. Crispi a presidente del Consiglio, e il viaggio di lui a Friedrichsruhe per conferire col principe di Bismarck.

Per altro i nostri commissari furono accolti bene a Parigi ed ebbero la promessa che il Governo della Repubblica avrebbe mandato a Roma i suoi, poichè le trattative dovevano farsi qui; ma già fino da quel tempo si capiva che la Francia ci avrebbe fatto una guerra di tariffe, non potendo farcela con armi più nobili.

Il 25 ottobre l’on. Crispi parlò nel banchetto di Torino. Il suo discorso fu lo svolgimento e l’ampliamento del programma di Stradella del 1875, che era servito di guida alla politica interna dell’Italia per tutto il tempo che il Depretis era stato al potere. L’on. Crispi trovò una formula felice per definire il suo criterio di governo. «Per noi, egli disse, il governo è quel che congiunge il dovere, il volere e il sapere. All’infuori di ciò è l’arbitrio». Toccando la questione dei rapporti con la Chiesa ripetè quello che aveva detto come ministro tre mesi prima al Parlamento, cioè che il «contegno dello Stato di fronte alla Chiesa è e sarà la devozione alla legge». Per