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andò in lungo. La villa si riapri, però l’assessore per l’edilizia, Balestra, capì che Roma doveva avere una passeggiata sempre aperta, e studiò quella dei Parioli.
In aprile venne a Roma Menotti Garibaldi per accompagnare la vedova del padre e il fratellino Manlio a salutare il venerando Nicola Fabrizi, che era aggravatissimo, e per presentare Manlio al Re, prima che entrasse nell’Accademia navale. Era stato l’ultimo voto del generale che Manlio fosse posto sotto la protezione di Umberto, e quel voto fu sciolto. La signora Francesca e il giovanetto furono ricevuti al Quirinale con quell’affettuosa cordialità, che il Re ha sempre avuto per gli eredi dell’eroe, e in quella visita fu parlato della cessione di Caprera allo Stato; in seguito vennero stabilite le modalità di quell’atto.
Il vecchio generale Fabrizi mori in quei giorni e sulla sua bara furono versate molte lagrime, perchè egli aveva saputo in vita comandare non solo l’ammirazione, ma anche l’affetto.
Tutti questi avvenimenti non distraevano punto l’attenzione del popolo italiano dall’Africa; sempre su quelle piaggie lontane era fisso il pensiero di lui. Sbollito il primo entusiasmo per la partenza delle tre prime spedizioni, se ne vide partire una quarta in maggio con rammarico. Era comandata dal generale Genė, ed era meno numerosa delle prime, ma portava artiglieria, genio e materiale per la costruzione di 10 chilometri di ferrovia Decauville. Sul Palestrina, che la trasportò a Massaua, vi era imbarcato don Pio Marzano, che era il cappellano destinato ai soldati d’Africa. Alla fine di maggio si seppe che Arkiko era stato occupato, ma prima di quella notizia, altre sconfortantissime sulla salute dei soldati erano giunte in Italia, cosicché a Roma, in Sicilia, in ogni parte del regno si formavano comitati per inviare limoni, cognac, sigari a quegli infelici, che lottavano con un clima torrido e malsano.
Quel povero Mancini, sempre sulla breccia a combattere per la sua politica coloniale, faceva veramente pietà; ai primi di maggio i deputati d’opposizione lo fulminarono di interpellenze; egli non sapeva tenere a bada gli avversari e barcamenarli con risposte evasive; l’uomo di toga ora traspariva dal ministro e aveva il torto di ripetersi; le sue dichiarazioni furono anche quella volta interrotte da continui gridi e nessuno capiva nulla. Era inoltre umiliato nel vedere che il Ricotti, suo collega, veniva ascoltato e che gl’interpellanti non rimasero neppure quella volta paghi delle sue dichiarazioni, come non erano mai; ma il Depretis, che aveva paura d’ogni falla d’acqua nella barca del ministero, riuscì a salvarlo con la consueta abilità.
L’opposizione vedendo che con le interpellanze non riusciva a buttar giù il Mancini, ricorse ad un’altra tattica: cominciò a non voler discutere sulla politica estera, e quando al bilancio degli esteri si dové pur venire ad un voto, il Mancini ne ebbe due soli di maggioranza. Allora tutto il Gabinetto dette le dimissioni, ma si ricompose sotto la solita presidenza del Depretis, che il paese chiamava dittatura. Il presidente continuò a reggere il ministero dell’Interno, e prese anche l’interim degli Esteri, il Taiani sostituì il Pessina alla Grazia e Giustizia e non si ebbero altri mutatamenti.
L’ultima spinta che aveva fatto cadere il Mancini era stato il progetto di legge per le missioni ed esplorazioni in Africa, che non era altro che una sequela di concessioni per Propaganda Fide. Le rendeva piena libertà di comprare e vendere beni mobili ed immobili, col pretesto delle spese delle missioni, di accettare donazioni, ed esonerava gli alunni di quell’istituto dal servizio militare fino al 26° anno d’età.
Il Carnevale ebbe una certa importanza, non per i balli privati, ma per il concorso delle maschere delle diverse regioni e per la curiosità che destarono Pantalone, Meneghino, Gianduja, Sten-