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Questa proibizione rese titubante monsignor Anzino; il ministro della guerra, general Ricotti, fece peraltro sapere al Vaticano che se non toglieva la proibizione egli avrebbe con decreto reale abrogato la disposizione che prescrive le bandiere sieno benedette. Cosi il Vaticano dovette cedere e due o tre giorni dopo il 14 fu eretto un altare sotto il porticato a sinistra della caserma del Macao, sul fondo fu posto un arazzo raffigurante la giustizia, sul davanti alcuni pendoni di velluto e monsignor Anzino, prima che le bandiere fossero consegnate ai reggimenti le benedì. Il Re, all’atto della consegna, disse volgendosi ai nuovi reggimenti:
- «Ufficiali, sottoufficiali e soldati,
«Con questa bandiera, che sventolo gloriosa sui campi nostri e su quelli d’Oriente, si compierono i destini d’Italia.
«Incomparabile valore, così per le memorie del passato come per le speranze dell’avvenire sia questo sacro emblema, che le vostre virtù renderanno sempre rispettato e temuto».
Durante la cerimonia il Re aveva a fianco il principe di Napoli e quando i reggimenti sfilavano dinanzi al Sovrano, il principe Vittorio Emanuele teneva gli occhi fissi sui soldati ed era serio in viso più che nol comportasse la sua età. Egli era commosso, ma più commossa ancora era la Regina, che non staccava lo sguardo di sul figlio forse pensando che l’avvenire e le sorti di lui erano indissolubilmente legate a quelle bandiere.
Roma avevale donate ai due reggimenti e le alunne della scuola professionale avevano ricamato nel campo bianco lo stemma sabaudo. Sullo scudo le donatrici avevano fatto incidere questa dedica composta dal Bonghi:
«Alla brigata dell’esercito italiano — Che prende nome da Roma — Le donne romane — Hanno data questa bandiera — Per ricordo ai prodi dell’antico valore — E in augurio dell’antica fortuna».
In quello stesso mese di marzo il Re pose la prima pietra del monumento a Vittorio Emanuele. Però i romani non erano ancora convinti che la località scelta fosse la più adatta. Si prevedeva, quello che è avvenuto, che i lavori fossero resi difficili appunto dalla località, le espropriazioni costose, e non lievi i danni agli edifizi attigui. Le guardie di città dovettero abbandonare la loro caserma accanto alla chiesa di Aracoeli e riunirsi in piazza di Sora; i cappuccini protestarono e un grande scetticismo si manifestò in città per l’immenso lavoro intrapreso.
Il palazzo delle Belle Arti, che era chiuso da un pezzo, si riaprì a quattro esposizioni simultanee, cioè quella del Risorgimento, e l’altra dei monumenti di Roma, che avevano figurato a Torino, quella artistico-industriale degli oggetti di legno intagliato, la prima di siffatto genere che si vedesse a Roma, e che riuscì bellissima per le intelligenti cure del principe Odescalchi e del prof. Erculei, e quella dei cultori e amatori di belle arti. Troppa grazia! disse qualcuno vedendo tanta roba, e così diversa, esposta nel palazzo di via Nazionale. Peraltro le due prime furono utili perchè permisero ai romani, che non erano andati a Torino, di giudicare in quale veste si era presentata Roma alla bella esposizione nazionale; la terza fu utilissima perché offri agli studiosi e agli artefici larga mèsse di osservazioni sui modelli del passato, scelti con criterio e ben disposti; la quarta sola fu inutile, come quasi tutte le piccole mostre artistiche, che troppo spesso si ripetono e accolgono sempre lavori degli stessi artisti.
L’imprigionamento di Sbarbaro aveva fatto diminuire sensibilmente la tiratura delle Forche Caudine, che nell’estate precedente era salita fino a 40,000 copie. L’editore Sommaruga, fra i