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mandata dal colonnello Leitnitz e recava un battaglione di fanteria su piede di guerra, carabinieri, genio, ecc. Sul primo di quei bastimenti avevano preso passaggio un cappuccino, il padre Bonaventura, per i bisogni religiosi della spedizione, e il capitano Mancini, figlio del ministro, che doveva consegnare a Porto-Said due lettere, una del Re e una del ministro degli esteri per il Negus Giovanni al capitano Ferrari, che insieme col capitano Nerazzini andava in missione in Abissinia.

Una terza spedizione partì sul Washington e nello stesso tempo si armavano a Spezia due squadriglie di torpediniere per iscortarla, e sul Conte di Cavour s’imbarcava il materiale. Questa terza spedizione era comandata dal generale Ricci e comprendeva 62 ufficiali e 1550 uomini.

Se da un lato i soldati erano salutati con ogni dimostrazione di simpatia al momento della partenza, il ministro, che li spediva in Africa, era fatto segno a tutte le diffidenze e a tutti gli attacchi possibili. Alla Camera poco meno si diceva o giù Mancini, o votiamo contro le convenzioni ferroviarie, che stavano, come si sapeva bene, molto a cuore al Presidente del Consiglio.

Peraltro dopo una quantità di vicende varie e curiose che potrebbero dar campo a un deputato di scrivere la storia di quel periodo parlamentare, le convenzioni furono approvate, ma non cessarono per questo le interpellanze sulla politica coloniale. Gli avversari sapevano che il Mancini non aveva l’abilità del Depretis al banco dei ministri, e lo tiravano sempre in ballo per fargli fare dichiarazioni di cui nessuno degli interpellanti era pago, e sulle quali il mago di Stradella evitava il voto.

Occupata Massaua, impegnati gl’inglesi nella campagna di rivendicazione, gl’italiani d’Africa stavano in attesa di ordini e di eventi, imbelli contro il clima, nemico che non erano preparati a combattere, e che li uccideva senza misericordia. In Italia giungevano le notizie della mortalità e tante altre sconfortantissime, e il giornale la Tribuna, che aveva mandato il Belcredi in Africa, si dava cura d’illuminare il paese sulla insania della spedizione fatta alla cieca, e sulle sofferenze di ogni genere cui erano sottoposti i nostri soldati. Un vero pànico a quelle notizie aveva invaso l’Italia; se tanto soffrivano i soldati in primavera, che cosa sarebbe mai avvenuto durante la stagione estiva? veniva fatto di pensare.

Questi erano i timori che angustiavano i romani come gl’italiani tutti in quel tempo, e che bastavano quasi a distoglierli da ogni altro pensiero. Però non era cancellato il ricordo dell’atto generoso compiuto dal Re ne dei bisogni di Napoli. In breve tempo il Parlamento esaminò ed approvò il progetto di legge per il risanamento della bella e infelice città, e stanziò una somma di 100 milioni per i lavori. Era generalmente noto quanto il Re avesse contribuito a fare entrare nella coscienza dell’Italia la necessità di risanar Napoli, e quante volte egli avesse dimostrata quella necessità ai ministri. Per questo la riconoscenza per lui era immensa, specialmente nelle province del Mezzogiorno. Una deputazione di abitanti della Basilicata, condotta dal presidente Michele Lacava, venne a recare a Umberto I un album contenente 38,000 firme, e il 14 marzo il ministro della Real Casa, conte Visone, presentava al Re la medaglia d’oro a nome del Consiglio dei Ministri, insieme con una pergamena riccamente miniata e che ricordava tutti gli atti di sublime abnegazione compiuti da lui nell’autunno precedente, i quali provocarono il plebiscito d’affetto.

In quel giorno il Re collocò la prima pietra del monumento al conte di Cavour ai prati di Castello, ma non poté consegnare le bandiere ai reggimenti nuovi 79° e 80° della brigata «Roma» per uno dei soliti attriti col Vaticano. Per quello fu rimessa anche la rivista col pretesto del cattivo tempo.

Il cardinal Sanfelice sapendo che anche a Napoli dovevansi benedire le bandiere, aveva chiesto istruzioni al Papa, il quale pare avesse ordinato che le bandiere non dovevano esser benedette.