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Le due navi della spedizione, che trasportavano i soldati, dovevano salpare il 15 da Napoli, ma il tempo orribile lo impedì, e quei due giorni furono spesi dai napoletani per fare ogni sorta di dimostrazioni di simpatia agli ufficiali, ai bersaglieri e al viaggiatore Cecchi, che accompagnava la spedizione. Il 17 finalmente le due navi si allontanarono dal porto salutate da una ovazione, e dalle artiglierie, e il mal tempo avendole costrette a rifugiarsi a Messina, i soldati trovarono anche là nuove accoglienze, e nuovi saluti cordiali alla partenza. Per tutto era stato augurato loro buon viaggio e buon ritorno, ma quanti di quei primi spediti non hanno riveduto le prode italiane!

I giornali della Pentarchia, sempre armati contro il Governo e pronti a difendere la politica tunisina dell’on. Cairoli, scrivevano che gli Italiani sarebbero rimasti padroni delle sabbie di Massaua; inutile dire che i fogli clericali tenevano lo stesso linguaggio.

Lo stesso giorno che le navi salpavano da Napoli si riaprì la Camera e il Mancini credè suo dovere fare alcune dichiarazioni che non soddisfecero punto gli avversari, ma non furono così vivamente combattute da credere necessario un voto. Si riprese, dopo ciò, la discussione delle convenzioni ferroviarie, che stettero lì lì per naufragare quando si venne all’articolo che lasciava in facoltà della Società Mediterranea di stabilire la sua sede in una città da destinarsi. Il Ministero si ostinò su questo punto, e i pentarchi ne fecero vivace questione; ma Depretis vinse.

La discussione su quest’eterno progetto di legge appassionava molto meno il paese e la Camera che non la politica coloniale, e ogni piccolo motivo spingeva i deputati alle interpellanze. Il 27 gennaio ne sono presentate quattro, quasi identiche, dagli onorevoli De Renzis, di Camporeale, Parenzo e Oliva, e una quinta dal Canzi, il quale fa ricadere sul Governo la responsabilità per l’uccisione del Bianchi, accusandolo di timidità, lentezza e irresolutezza dopo l’eccidio Giulietti. Il ministro degli esteri si difende come può; dice che non vuole una politica di espansione, ma che occupa le terre africane per estendervi i beneficii della civiltà, e per coadiuvare le potenze civili nei loro sforzi. Egli vuole che l’occupazione di un territorio abbia scopo economico e politico e che non sia in opposizione con i diritti acquisiti; vuole pure che l’attività del popolo italiano secondi l’impresa del Governo.

Il giorno prima di questa interpellanza gl’italiani s’impossessavano Beilul e i soldati egiziani, che occupavano quel luogo ove il povero Giulietti era perito, venivano imbarcati sul Corsica e spediti a Massaua.

Un’altra scaramuccia vi fu alla Camera per la convenzione conclusa fra l’on. Brin, ministro della marina, e la casa inglese Armstrong, a fine d’istituire a Pozzuoli un cantiere che fornisse cannoni e corazze alle nostre navi. I pentarchi combatterono quella misura utile e forse non si vedrebbe ora sul bellissimo golfo il fiorente stabilimento, se Rocco de Zerbi non avesse difesa con efficacia di criterii e di parole l’opera del Brin.

Mentre qua l’irritazione della Pentarchia per la politica africana del Governo si manifestava con una guerra continua non solo al Mancini, ma a tutto il Gabinetto, che lo seguiva, in Africa gl’inglesi avevano uno di quegli scacchi, dopo i quali essi sanno rialzarsi più forti che mai. Kartum cadeva nelle mani del Mahdi.

Qui allora si sognò che il Governo italiano volesse intraprendere una guerra in aiuto dell’Inghilterra e si fecero mille supposizioni nel buio, perché lo scopo della prima spedizione e della seconda, che stava per partire da Napoli, non era ben definito. Quello scopo s’incominciò a capire quando seppesi che il Gottardo e l’Amerigo Vespucci avevano sbarcato i soldati a Massaua.

La seconda spedizione partì il giorno 11 febbraio sul Vincenzo Florio e sull’Amedeo, era co-