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desiderio di tutti. La prima era un atto di deferenza; la seconda di giustizia. Vice-presidenti furono Odescalchi e Barabino.
I dissensi di Torino fecero novamente capolino. Il sindaco invitò formalmente gli artisti a ritrovarsi in Roma nel 1885; Torino aveva già invitato pel 1884; ma quei dissensi furono presto appianati e gli artisti si posero d’accordo statuendo che Roma avesse ogni quadriennio una esposizione, invece che ogni biennio, per lasciare tempo che si tenessero mostre artistiche in altre città.
Quell’anno lunga fu la discussione artistica che dalla cinta ristretta della sede del Congresso e della Esposizione, invase il Parlamento e la città, e molti i festeggiamenti agli artisti. Il Circolo Artistico Internazionale dette loro un banchetto, al quale intervenne anche il Depretis; il municipio una geniale e sontuosa colazione alle Terme di Caracalla, sotto un ampio velario; la Corte un pranzo di 65 invitati, durante il quale Re e Regina, dismessa l’etichetta, parlarono confidenzialmente con tutti gli artisti, e specialmente con Camillo Boito e con Pio Piacentini. A lui il Re consegnò le insegne di commendatore della Corona d’Italia; al sindaco Torlonia quelle di grande ufficiale, e quasi il Re volesse fare solenne promessa ai suoi convitati che l’incoraggiamento agli artisti sarebbe stato un dovere di casa Savoia, alla fine del pranzo fece comparire il giovinetto Principe di Napoli presentandogli i commensali e facendolo partecipare alla lieta festa.
C’era nell’aria in quell’anno un grande effluvio di una fiorente primavera dell’arte. Esso penetrava anche alla Camera ove il ministro Baccelli espose il piano della grandiosa passeggiata archeologica, che pari a immensa cintura doveva stendere i suoi verdi viali attorno al Palatino, al Celio e al Viminale e ricingere i ruderi dei monumenti della via Appia: idea bellissima, caldeggiata in seguito anche dal Bonghi, ma rimasta allo stato d’idea.
Il ministro della Pubblica Istruzione faceva in quell’anno demolire il ponte, che celava l’arco e il tempio di Settimio Severo al Foro Romano, e faceva abbattere gli orecchi del Bernini, cioè i due campaniletti che deturpavano la cupola del Pantheon.
Il centenario di Raffaello fu solennizzato con pompa al Pantheon e al Campidoglio. Nel tempio dove riposano le ossa del grande artista, venne inaugurato il busto. Al Campidoglio il discorso fu fatto dal cav. Leoni, segretario di San Luca. In quella occasione il duca di Ripalda, che aveva tanto questionato col Governo per i lavori del Tevere, che recavano danni alla Farnesina, e aveva avuto causa vinta dalla corte d’Appello di Perugia, aprì il palazzo al pubblico. I lavori che si facevano allora nel fiume dalla ditta Cottrau, ad aria compressa, non recavano più nessuna offesa al bel palazzo Raffaellesco. Il duca era tutto contento, ma quasi la felicità non fosse, come assicura il Leopardi, privilegio di noi mortali, poco tempo dopo spirava.
Anche in quell’inverno, oltre le consuete esequie e un pellegrinaggio di veterani, ve ne fu al Pantheon un altro degli studenti monarchici di Torino, Pavia e Bologna, che dimostrò come anche nella gioventù che si cercava di staccare dal culto del gran Re, predicandole nuove dottrine e additandole nuovi ideali, quel culto si serbasse vivo.
Allegria non ve ne fu molta nell’inverno perché poche famiglie ricevevano, e anche perché quasi tutti gli ambasciatori erano stati cambiati e non v’era fra loro e la società romana quell’affiatamento che nasce dalla consuetudine. Al Quirinale vi furono i soliti balli e ad uno di quelli destò molta meraviglia la presenza del principe Luigi di Borbone, conte d’Aquila, fratello di Ferdinando II, re di Napoli. Il Principe appena giunto a Roma aveva fatto visita al Re e andò al ballo del Quirinale trattenendovisi tutta la sera. Il Re gli parlò lungamente e poi rivolse la parola al Nicotera. Certi contrasti non si vedono altro che a Roma.