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Cosi parlava nei comizii il tribuno di Roma, ma era sempre seguito dal popolo, perchè il suo candidato Ricciotti Garibaldi raccoglieva due giorni dopo 2136 voti contro don Fabrizio Colonna. Ma quando si vide che nel periodo del ballottaggio fra questi due candidati l’Ezio II continuava ad aizzare la gente, e che eletto Ricciotti si sarebbe venuti alla guerra civile, la parte apatica, ma ben pensante della cittadinanza romana uscì dall’inerzia, e Fabrizio Colonna fu eletto con 5429 voti e l’altro ne ebbt 3228.
In quei giorni la corte d’Appello aveva rigettato il ricorso di Coccapieller contro la sentenza che lo condannava a 42 mesi di carcere per sette reati di diffamazione.
Queste due sconfitte fiaccarono la fiducia del tribuno. Egli andò alla Camera il 9 già irritato, vide subito convalidata l’elezione Colonna, e neppure appoggiata una sua proposta, e dette le dimissioni, che furono seduta stante accettate. I deputati non volevano avere per collega quell’uomo, che offendeva tutti, che vilipendeva tutti, e glielo avevano fatto intendere chiaramente.
Un mese appena era trascorso dopo che aveva dato le dimissioni, che veniva arrestato per avere insultato un pretore, che avevagli ordinato un sequestro per due cambiali non pagate al sarto Aymerti. Il processo s’istrui con molta sollecitudine e il tribunale lo condannò ad altri 7 mesi di carcere. Poi ridusse la pena, ma ormai le speranze di Coccapieller erano svanite, e Roma pareva fosse rinsavita e non volesse più essere esposta allo scorno di sentire un pazzo, forte dei voti popolari, parlare spropositatamente in suo nome.
Ho voluto riassumere tutti i fatti svoltisi attorno a Coccapieller in un periodo di tempo di sette mesi circa, perchè il lettore avesse dinanzi agli occhi una specie di quadro dell’opera funesta di quell’uomo, ma non si deve credere che tutta la vita di Roma fosse assorbita e paralizzata dal capriccio del tribuno.
Ai 22 di gennaio il Palazzo delle Belle Arti s’inaugurava dal Re e dalla Regina con una splendida festa dell’arte, il cui esito era in gran parte dovuto al presidente del comitato esecutivo, onorevole Emanuele Ruspoli. Il duca Torlonia, che funzionava in quel tempo da Sindaco, aveva ragione di dire con giovanile baldanza e con cuore di romano: «Non è solo l’Italia, ma ogni nazione educata a civiltà, che saluta oggi il compimento di un’opera dalla quale è lecito ripromettersi larga mèsse di beneficii».
L’esposizione era bella davvero e a renderla ammirevole avevano contribuito gli artisti italiani, che avevano lavorato con nuova lena sapendo che a Roma dovevano essere giudicati. Su tutti trionfava Francesco Paolo Michetti col suo Voto, quadro ardito, al quale il tempo non aveva ancora recato offesa, e anche in quel primo giorno della inaugurazione ufficiale, e mentre nelle sale echeggiavano le note dell’inno di Ugo Fleres, musicate dal direttore della banda municipale, cav. Pezzini, gli artisti, gli amatori di pittura erano aggruppati intorno al quadro, illustrato già dalla magica penna di Gabriele d’Annunzio, e discutevano con criterii diversi la tela mirabile, ma nessuno negava al giovane collega di Francavilla l’ingegno potente, la potentissima facoltà pittorica. A Napoli nel 1877, a Parigi nel 1878 Michetti aveva avuto il solenne battesimo dell’arte; ma a Roma fu consacrato maestro.
I giorni successivi il Re inaugurò al Campidoglio il congresso degli Architetti di cui fu eletto presidente il Betocchi, e dopo poco anche quello artistico nel locale della Filarmonica romana, alle Quattro Fontane. Camillo Boito, che era presidente della prima sezione di quello degli architetti, propose che fosse eletto presidente onorario del congresso artistico Terenzio Mamiani, e presidente effettivo Emanuele Ruspoli. Queste elezioni furono fatte per acclamazione, tanto rispondevano al