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guerresche e civili sceglievano i più belli e i più poetici fra i ricordi, per gettarli, quali fiori, sulla salma di lui. I giornali clericali stessi tacevano per non urtare il sentimento nazionale; una sola voce discorde si udì in tanta armonia di compianto: quella del Cassandrino, uno dei tanti giornalucci denigratori che si stampava allora nella stessa tipografia della Voce della Verità. Gli studenti, aizzati forse, andarono alla tipografia guidati da Guglielmo Oberdank e se la presero anche con la Voce, e soprattutto col proprietario della tipografia, Giuseppe Nicola, al quale recarono danni ingenti, che nessuno gli ha mai risarciti. L’ispettore di Sant’Eustachio fu punito.

Appena fu stabilito il giorno dei funerali, le diverse deputazioni partirono per Civitavecchia e di là s’imbarcarono sull’Ortigia. S. A. R. il duca di Genova, quale rappresentante del Re, partì poche ore dopo insieme con i ministri Ferrero e Zanardelli, i generali Sacchi e Caravà, col tenente colonnello Morozzo della Rocca e i due maestri di cerimonie, marchesi della Stufa e Tolomei, col duca Torlonia e la deputazione del comune di Roma, composta dell’assessore Placidi, dei consiglieri Ferrari e Armellini e del segretario Colombo. Erano insieme col principe Tommaso, l’on. Farini, i due vice-presidenti della Camera e i senatori Vitelleschi e Corte. Sul Washingion, comandato dal Magnaghi, s’imbarcarono i giornalisti e il dottor Gaetano Pini, grande maestro aggiunto onorario ad vitam della Massoneria, grande apostolo della cremazione, che portava seco tutti gli attrezzi necessari, e non stava nella pelle dalla speranza di poter cremare il cadavere di Garibaldi, mentre molti erano indignati alla idea, che tacciavano di barbara, di veder ardere il corpo del generale su una catasta di legna aromatiche, come egli aveva prescritto, e fra questi vi era primo Francesco Crispi. Questo sentimento prevalse e nonostante le disposizioni testamentarie e le raccomandazioni a Prandina e alla moglie, la salma del generale non fu data al fuoco, ma imbalsamata dal dottor Albanese e consegnata alla terra.

Intanto che sulla deserta isola si compiva la funerea cerimonia, Roma si empiva di uomini che avevano seguito Garibaldi in tutte le guerre. Per le strade non si vedevano altro che vecchie camicie rosse, le quali riportavano il pensiero ai bei giorni delle trepidazioni e delle speranze, e camicie rosse, , nuove fiammanti indossate da giovani imberbi. Tutta questa gente giungeva per assistere alla commemorazione popolare del giorno 11, alla grande processione del busto e al suo trasporto in Campidoglio.

Dalla Francia vennero a Roma molti. Prima Leone Taxil, rubicondo, grassoccio, che fece una conferenza agli studenti nelle sale della Progressista, e disse che l’Italia doveva vomitare il prete, e che la France même, je vous en réponds, n’en voudra pas de ce vomissement de l’Italie; poi giunsero Lockroy, Vacquerie, Pelletan, Maret, Farie, Ronc, Ordinaire, Julien de Penel del Paris, Strauss del Voltaire, Eugenio Gentili del National, Rosati della Nouvelle Revue, De Georges dell’Intransigent, e i signori Songian, Guyot e Tharel rappresentanti del municipio di Parigi e il capo di gabinetto Verguaude, quattro consiglieri di prefettura della Senna. Queste due rappresentanze furono ricevute alla stazione dalla Giunta, che le accompagnò all’albergo Costanzi. Al Campidoglio le riceve l’assessore on. Seismit-Doda, nell’assenza del ff. di sindaco, don Leopoldo Torlonia, il quale era ancora a Caprera.

Il signor Songian, presidente del Consiglio municipale di Parigi, disse che i francesi, nel grave dolore che avevali mossi, erano lieti di poter venire ad attestare l’ammirazione, la riconoscenza della Francia per Garibaldi. Egli conchiuse il suo bel discorso vantando il suo primo esilio di cui fu causa la protesta a mano armata nel 1849 contro l’uccisione della repubblica romana.

Alle deputazioni parigine si unirono poi quelle di Marsiglia, Nimes, Lione, Versailles, e diversi reduci della campagna del 1870-71.