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Ma la prospettiva dei cento milioni di lavoro aveva creato una grande aureola di popolarità attorno al nome del Pianciani, e in fretta e in furia fu convocato un comizio all’Alhambra nel quale fu dichiarato decaduto il Consiglio Comunale.

Il Pianciani però capì che quel comizio lo poneva in una situazione difficile di fronte alla città e si affrettò a convocare il Consiglio e a presentare le proprie dimissioni. Poche sere dopo, mentre in Consiglio si discutevano le dimissioni della Giunta e si biasimava la condotta del Sindaco, che voleva impegnare il Comune nientemeno che per 50 milioni, in città si formavano due dimostrazioni composte di muratori, di scalpellini, di fabbri, di falegnami, che volevano andare al Campidoglio a ripetere quello che era stato deliberato nel comizio. La polizia impedì loro di giungere alla meta; la Giunta dimissionaria rimase al posto, e il Pianciani se ne andò. Il duca Leopoldo Torlonia, che voleva far nascere nel popolo il convincimento che il Consiglio non era contrario ai lavori, come asserivano gli amici del Pianciani, appena come assessore anziano prese a funzionare da Sindaco, fece approvare un concorso del Comune di 3 milioni alla Esposizione Mondiale per il 1885, repartendo la spesa in cinque esercizi, cioè da quello del 1883 a quello del 1887. Il Consiglio con molta speditezza approvava pure il piano regolatore e metteva mano ai lavori, tanto che il Re per la festa dello Statuto potè porre la prima pietra delle costruzioni in piazza Vittorio Emanuele, affidate all’impresa Marotti, Frontini e Geisser.

A quella cerimonia si volle dare molta solennità quasi come inizio di una serie di lavori proficui per il popolo.

In quell’anno lo Statuto non fu festeggiato come di consueto la prima domenica di giugno, ma bensì la terza, perchè Roma era in lutto per la morte di Garibaldi, avvenuta il giorno 2 a Caprera, e l’idea di feste, in mezzo a tanta sventura, sarebbe ripugnata ad ogni anima patriotica.

Roma sapeva quanto doveva a Garibaldi e mostrò in quei giorni di non aver dimenticato che egli avevala difesa strenuamente nel 1849 e dopo avera saputo infondere negli italiani la convinzione che senza Roma l’Italia non era unita, e finalmente, cessato il periodo storico delle conquiste, aveva rivolto la mente e l’ultimo resto di energia a volerla risanata e prospera.

La notizia si sparse per la città alle 10 di sera. La comunicarono alcuni deputati che l’avevano saputa dal Depretis e appena usci la Gazzetta d’Italia verso le ii furono presi d’assalto i rivenditori. Nei teatri fu sospesa la rappresentazione e nelle vie la gente non parlava d’altro.

Il Consiglio Comunale era adunato in seduta segreta quando in Campidoglio giunse la notizia e subito il duca Torlonia spedi un telegramma a Menotti e preparò un proclama che la mattina dopo fu affisso presto per tutta la città.

Il Consiglio dei Ministri si riuni in casa dell’on. Depretis e insieme con l’on. Farini stabili le onoranze da rendersi al Generale.

Il Re scrisse subito di suo pugno il seguente telegramma:


All’on. Menotti Garibaldi,

Caprera.

«Il dolore ch’io provo per la morte del suo illustre genitore è pari alla disgrazia da cui fu colpita la nazione.

«Mio padre mi aveva insegnato dalla mia prima gioventù ad onorare nel generale Garibaldi la virtù del cittadino e del soldato.

«Testimone quindi delle gloriose sue gesta, ebbi per lui l’affetto più profondo e la più grande riconoscenza ed ammiraxione