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Roma e a Firenze le scuole superiori di magistero, e l’altro d’iniziativa Bovio e Cavallotti per equiparare i combattenti dell’Agro Romano a quelli delle altre campagne. Il ministro Depretis respinse la proposta e volle che su quel fatto si lasciasse facoltà ampia al Ministero di giudicare, e la Camera fu del suo parere, come era sempre, sapendo che i suoi giorni erano contati. Così votò il progetto di legge col quale era accordato potere al Governo di provvedere con decreti reali alla colonia di Assab, sulla quale già era estesa la sovranità dell’Italia, nonostante le opposizioni platoniche dell’Egitto e della Porta.

La Camera si prorogò alla fine di luglio e il Senato, che aveva lavorato con eguale alacrità, ne seguì l’esempio.

In marzo Roma pareva ridotta l’asilo dei morti invece che quello di una numerosa popolazione di viventi, e per più giorni non si vedevano altro che sontuosi carri funebri girare per la città ed erano tutti uomini insigni quelli che sparivano e lasciavano dietro a sè largo rimpianto.

Giovanni Lanza, colui che aveva avuto il coraggio di portare l’Italia a Roma, fu il primo a sparire. Si ammalò in un modesto quartierino, che abitava all’albergo di New-York e fu assistito amorosamente dagli amici, dal nipote Camillo e dalla povera signora Lanza, venuta per la prima volta a Roma in quella triste circostanza, ma nulla valse a salvarlo, e il 9 marzo spirava. Poco prima, quando era ancora in sè, ma l’asma era già tanto forte da impedirgli di parlare, fu chiamato il parroco di San Lorenzo in Lucina. Il prete rivolgeva in presenza della moglie e dei parenti le domande al moribondo, e questi assentiva con la testa. A un certo punto il sacerdote domandavagli se voleva ritrattare quanto potesse aver commesso «contro la religione e contro le leggi di Santa Madre Chiesa». Il Lanza lo fulminò con uno sguardo tale che il prete dette l’assoluzione senza aggiungere altro.

I giornali clericali misero fuori la solita storiella della ritrattazione del Lanza, la famiglia fece smentire; essi tornarono alla carica, ed allora comparve una dichiarazione firmata dalla vedova, dal nipote e da altri parenti che avevano assistito alla confessione, nella quale narravano i fatti come qui sono accennati, ed era tanto vero quello che la famiglia asseriva che il parroco fu sospeso.

Nello stesso giorno che Giovanni Lanza, l’integro, onesto e valoroso cittadino, il semper idem, come lo definì l’Abignente alla Camera, spariva dalla scena del mondo, dopo compiuta l’epopea nazionale, anche il generale Giacomo Medici, un soldato valoroso, un vero amico del paese e della dinastia, si spegneva. La sua perdita fu sinceramente pianta nella reggia, dove il suo consiglio era ascoltato; nell’esercito, ove si rammentava il suo valore, e nel popolo, che sapeva quanto fosse buono e quanto avesse fatto per i poveri colerosi in Sicilia.

Giacomo Medici morì all’Albergo del Quirinale, circondato dalla moglie e dal nipote Luigi. Attorno al suo letto di morte non si ripeterono i pettegolezzi che si erano fatti attorno a quello di Giovanni Lanza. Il parroco di San Bernardo giunse quando stava per ispirare, e lo benedì.

Il trasporto del Lanza, collare dell’Annunziata, fu sontuoso e il carro di prima classe era coperto di corone. La salma del primo aiutante di campo del Re fu posta su un affusto di cannone e dietro era portata a mano la cavalla Morena, datagli da Vittorio Emanuele, e che il generale montava ai funerali del suo Re.

In quei giorni moriva pure il comm. Giuseppe Civelli, uno dei più ricchi e potenti industriali del Regno; moriva il comm. Carlo Bombrini, direttore da più di 50 anni della Banca Nazionale ed efficace cooperatore di Cavour durante la guerra del 1859, e l’on. Tito Ronchetti, segretario generale al ministero di grazia e giustizia.