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sventrate che lasciavano in mostra brandelli di carta sudicia, tele di divisioni, soffitti, davano alla città un aspetto strano. Si camminava sui calcinacci e l’aria era sempre annebbiata dalla polvere delle demolizioni.
La determinazione presa dal Comitato dei Veterani di Torino di fare un pellegrinaggio a Roma alla tomba del Re Vittorio Emanuele fu adottata pure dagli altri Comitati d’Italia per modo che ai primi di gennaio non si vedevano per le vie altro che uomini maturi, col petto fregiato di medaglie e vecchi che portavano con alterezza i distintivi del loro valore.
Il generale Crodara-Visconti, il colonnello Massulena, e i consiglieri della deputazione del Comizio generale dei Veterani di Torino erano accolti dalla Commissione organizzatrice di Roma, composta dai generali Cerrotti e Galletti, dai colonnelli Gigli e Antaldi e dai signori Pacifico, Aliberti e Ascenzi come pure dalle deputazioni di tutte le altre città italiane, che già si trovavano a Roma.
Il ricevimento solenne fu fatto dal sindaco Pianciani e dalla Giunta nella sala degli Orazi e Curiazi.
La mattina del 9 alle otto i Sovrani andarono al Pantheon e udirono la messa detta da monsignor Renier, custode della tomba. Appena essi furono usciti, incominciò il pellegrinaggio dei Veterani. Lo guidava il Sindaco di Roma, e i generali Crodara-Visconti, Cerrotti, Galletti e Haug. Ogni deputazione deponeva corone sulla tomba. Prima che vi fosse deposta quella di bronzo recata dai Veterani di Torino, il generale Crodara-Visconti pronunziò queste poche parole: «Noi che ti seguimmo in tutte le tue gloriose imprese, noi che ogni anno preghiamo a Superga pace all’anima dei tuoi cari, siamo venuti a Roma da tutte le parti d’Italia per inchinarci dinanzi alla tua tomba e deporvi una corona, testimone del nostro affetto».
Il pellegrinaggio fu bello per il numero dei Veterani e le accoglienze che essi ebbero a Roma spontanee e cordiali, ma i pettegolezzi non mancarono. Si disse che i Veterani, così devoti al loro antico duce, fossero scandalizzati dello stato in cui avevano trovato la tomba. Era stato decretato che essa sarebbe stata trasferita ov’è al presente, cioè nella seconda cappella a destra del Pantheon, e il Buongiovannini e il Massuero avevano fatto un progetto per dare alla sepoltura provvisoria un aspetto decoroso. Il preventivo della spesa ascendeva a 150,000 lire e se non erro per il rivestimento in bronzo si dovevano fondere alcuni cannoni tolti agli austriaci e conservati a Torino; la Casa Reale concorreva alla spesa. Ma il Baccelli non aveva lasciato effettuare quel progetto, perché aveva in animo di destinare il Pantheon a tomba dei nostri Re.
I Veterani avevano ragione di essere un po’ scandalizzati. Una semplice lapide indicava il luogo ove si custodivano le ossa del Gran Re; appena il Tevere era in piena, l’acqua inondava quella parte del Pantheon, dietro vi era un luogo immondo, dal quale esalava molto fetore.
Ma i Veterani prima di partire ebbero assicurazione che si sarebbe provveduto, e il pettegolezzo, che i giornali avevano ingrossato, non turbò l’accordo fra il Comitato generale di Torino, e quello di Roma.
Ai funerali del 16, fatti a cura dello Stato, fu eseguita per la prima volta la bellissima messa del prof. Eugenio Terziani, che piacque immensamente. Il Re, in ricompensa di quella ispirata e dotta composizione, lo creò commendatore.
Lo scandalo piccino si era calmato, ma ne nacque subito uno molto grosso per altra causa. A un tratto si seppe che il signor Oblieght aveva ceduto per 3,600,000 lire i giornali di sua proprietà e la sua azienda di pubblicità a un gruppo di capitalisti clericali francesi, dei quali era rappresentante il signor Frémy; essi, per i loro affari in Italia, fondarono la banca Franco-Romana e avevano bisogno di disporre della stampa.