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e Cambray-Digny, e il Depretis assicurò che il Governo non era stato avvertito che il trasporto si volesse fare con pompa, e che non poteva dire di dove fossero partite le provocazioni; aggiunse di avere ordinata una inchiesta per sapere se la responsabilità dei disordini spettava all’autorità politica o a quella di pubblica sicurezza.
Naturalmente dopo quei fatti, nei giornali avanzati venne in ballo la discussione della legge delle guarentigie, e la Lega della Democrazia domandò che fosse abolita, e invocò un’agitazione popolare in quel senso. I clericali risposero invitando i loro amici a un pellegrinaggio di protesta alla tomba di Pio IX, che fu impedito dalla questura, e il cardinale Jacobini mandò una circolare ai nunzi per richiamare l’attenzione dei Governi sui fatti accaduti la notte del 13.
Frattanto i radicali si riunivano per chiedere l’abolizione della legge sulle guarentigie, e a Roma si formò un comitato, il quale tenne un’assemblea sotto la presidenza di Alberto Mario. In quell’assemblea fu stabilito di promuovere un’agitazione in tutta l’Italia e di tenere numerosi comizi popolari, come si era fatto per la riforma elettorale.
Ai primi di agosto il Papa pronunziava una allocuzione di protesta contro i fatti del 13 luglio. L’allocuzione era stata pubblicata dai giornali clericali. La sera del 7 agosto adunavasi il comizio.
Quella pubblicazione parve una nuova sfida. Nel comizio al Politeama Romano si tennero discorsi violenti e tutti i giornali che li riprodussero furono sequestrati, specialmente per le parole pronunziate da Alberto Mario e per la votazione dell’ordine del giorno da lui proposto. La sera la questura impedì a piazza Colonna una piccola dimostrazione come coda del comizio, e represse anche pochi gridi monarchici. Il ministro dell’interno non voleva assolutamente dimostrazioni in piazza; nei luoghi chiusi discutessero pure, ma non all’aria aperta.
Però, per opera di Alberto Mario, l’agitazione contro le leggi delle guarentigie si estese a molte parti d’Italia, e finalmente il Governo vi pose rimedio pubblicando una nota nella Gazzetta Ufficiale con la quale esprimeva la ferma risoluzione «di concordare con tutti i legittimi mezzi di piena ed efficace tutela, la sicurezza e l’indipendenza del Sommo Pontefice e l’indipendenza della sua sovranità spirituale, reprimendo ad un tempo le offese alla unità ed alla sovranità nazionale».
Questo era parlar chiaro e l’agitazione si calmò, ma prima ancora che il Governo avesse espresso la sua opinione, un’altra se n’era manifestata. Menotti Garibaldi aveva fatta efficace propaganda per la istituzione degli allievi-volontari, che mirava ad armare la gioventù. A Roma il battaglione si era costituito e aveva chiesto un ufficiale e i fucili al ministero della guerra.
Menotti Garibaldi andò più oltre, e chiese per gli allievi volontari una divisa. Il ministero rispose che «pure apprezzando i motivi patriottici ai quali si erano ispirati gli iniziatori, era dolente di non potere accordare la richiesta autorizzazione, sia perchè le leggi non permettono la costituzione di corpi armati non dipendenti direttamente dal Governo, sia perchè esso Governo aveva provveduto ad una larghissima educazione militare con le leggi sul reclutamento, sul tiro a segno, e con altre che intendeva presto presentare al Parlamento».
Nonostante che il ministero della guerra parlasse cosi, l’on. Baccelli tollerava che gli allievi-volontari continuassero a far gli esercizi nel cortile del Collegio Romano, e il 18 settembre Menotti Garibaldi vi andò e rivolse ai giovani un discorso poco conforme alle disposizioni governative, e fece distribuire loro una medaglia, che doveva servire di distintivo.
Il 25 gli allievi-volontari dovevano riunirsi fuori Porta Maggiore, quando il Prefetto fece sapere al Vice-Presidente dei Reduci che la riunione non sarebbe stata tollerata. La Gazzetta Ufficiale già aveva riprovato l’agitazione ed espresse le opinioni del Governo ostili alla nuova istituzione.