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lazioni con l’Austria, già tanto tese. I deputati repubblicani Cavallotti, Bovio, Aporti, Arisi, Basetti, Saladini e Giovagnoli, avevano messo la firma sotto il manifesto del comizio, non così l’on. Agostino Bertani, al quale forse non parve prudente l’invito fatto al popolo, di scendere in piazza.

Il giorno 10 i delegati dei vari comizi venuti da diverse parti d’Italia, si riunivano alla Sala Dante. Ma Garibaldi non vi era. In quella prima seduta i delegati si divisero in due campi e avvennero fra di loro scene violente. Da un lato stavano i mazziniani, dall’altro gli evoluzionisti. Questi dicevano: domandiamo il suffragio universale; con questo mezzo otterremo tutto il resto, non spaventeremo nessuno e ci risparmieremo i fulmini della polizia. I primi invece affermavano il sacro e imprescindibile diritto del popolo alla rivoluzione. Per essi il suffragio universale era questione secondaria; la prima era quella di toglier di mezzo la Monarchia. Brusco Onnis, vecchio rivoluzionario, capitanava i mazziniani; Alberto Mario, garbato e cortese rivoluzionario, gli evoluzionisti, ed egli trionfò sull’avversario con una sessantina di voti.

Nella seconda seduta i due partiti si conciliarono e insieme formularono un ordine del giorno così concepito:

«Il Comizio dei Comizi adunato in Roma, presenti i delegati di cento comizi e di mille e duecento associazioni popolari, ritenuto che nella inalienabile sovranità del popolo riposa il nuovo diritto pubblico, e che è dovere della democrazia promuoverne la rivendicazione, invita il popolo a riconquistare il suffragio universale come uno dei diritti costitutivi di quella sovranità, da cui sorge la legge della nuova vita italiana»).

I promotori e firmatari di quest’ordine del giorno furono: Giovanni Bovio, Felice Cavallotti, Edoardo Pantano, Vincenzo Brusco Onnis, Lorenzo Costaguta, Antonio Fratti, Pietro Turco, Alberto Mario, cioè quattro mazziniani e quattro evoluzionisti. L’on. Cavallotti lesse una lettera di Garibaldi con la quale si dichiarava repubblicano e favorevole al suffragio universale. L’on. Bovio rammentò che Garibaldi rappresentava Trento e Trieste e propose un saluto all’Italia irredenta, che fu accolto con applausi.

Fu pure approvato un ordine del giorno della signora Anna Maria Mozzoni, sostenuto dai mazziniani e combattuto da Luzzatto e Colaianni, con il quale il comizio riconosceva «cosi nell’uomo come nella donna l’integrità del voto».

Nell’ultima seduta fu poi deliberato di recarsi il domani al Campidoglio per presentare al popolo il voto del comizio, invitandolo a un plebiscito che, cominciando da Roma, sarebbe stato promosso poi in tutte le città italiane.

Il questore Bacco fece subito affiggere un manifesto col quale proibiva la radunanza al Campidoglio. Appena il comitato del comizio ebbe avviso del divieto, invitò il popolo allo Sferisterio per votare in quel luogo l’ordine del giorno del comizio.

Il popolo andò allo Sferisterio, fu invitato a votare, alzò le mani e il Comizio dei Comizi si sciolse senza fare la dimostrazione al Quirinale, senza provocare disordini e neppure una interpellanza alla Camera sul divieto della riunione al Campidoglio.

Balli ve ne furono moltissimi in quell’anno a Corte, in case private, alle ambasciate d’Inghilterra, di Germania, d’Austria e anche alla Legazione Giapponese, nel palazzo in via della Mercede, addobbato dal ministro, principe Nabreshima, con sfarzo orientale, ma il numero dei balli fu inferiore a quello dei pettegolezzi che essi suscitarono. In casa Fiano, ove andarono i Sovrani, le ambasciatrici non furono invitate alla cena reale e quattro di esse se ne andarono prima che il Re e la Regina si ponessero a tavola. Allora ciarle e discussioni che fecero prendere alla Corte la