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Ma vediamo quale sorte toccò al Concorso Governativo per Roma, dal quale dipende vano le sorti della capitale.

La Giunta parlamentare che aveva in esame la legge sul concorso governativo per Roma, stabilì di formulare un progetto di legge nel quale fossero distinte le opere governative da quelle municipali, lasciando le prime a intero carico dello Stato, e facendo che questo concorresse per la metà approssimativa della spesa ai lavori municipali.

Le prime e i secondi dovevano essere terminati in dieci anni. Per concretare il progetto nominò una sotto-commissione composta degli on. Nicotera, Sella e Ruspoli.

Dopo alcune sedute su nominato relatore del progetto concreto della sotto-commissione l’on. Sella, ma il Governo si affrettò a dichiarare per mezzo degli on. Depretis, Magliani e Baccelli che non lo accettava in massima, ma riserbavasi a prendere una deliberazione definitiva al ritorno dell’on. Cairoli.

Il presidente del Consiglio restituitosi a Roma ebbe subito un colloquio con il relatore, on. Sella, ma l’accordo fra le idee del Governo e quelle della sotto-commissione non potè conseguirsi.

Il 9 marzo fu aperta la discussione sul famoso progetto di legge e il presidente del Consiglio, che voleva ad ogni costo rispettata la convenzione conchiusa col Comune, tento di nuovo conciliare le proprie vedute con quelle della commissione; si tennero conferenze fra i membri di questa e i ministri, senza risultato. Intanto l’opposizione che faceva la Camera al progetto di legge ne metteva in forse l’approvazione e asserivasi che il Governo volesse sostenere le proprie idee fino al punto di porre la quistione di Gabinetto.

Invece gli on. Massari e Crispi rialzarono con i loro discorsi le sorti del progetto di legge e quando più le sorti di questo parevano minacciate, fu concluso l’accordo fra Ministero e Commissione e il frutto di quell’accordo fu che il Governo avrebbe pagato la somma di 50 milioni in 20 anni, cioè dal 1882 al 1901 a ragione di 2,500,000 lire annue, che nei lavori sarebbe stato compreso il prolungamento della via Nazionale, fino al ponte sul Tevere, e che ad alcuni lavori imposti al municipio se ne sarebbero potuti sostituire altri di egual natura. Ma un’altra difficoltà sorgeva. L’on. Ferdinando Martini, il quale in quistioni d’arte aveva alla Camera e nel paese molta autorità, dichiarò che non avrebbe votato il progetto di legge se da quello non si fosse staccata la costruzione del palazzo delle Belle Arti, perché riteneva dannoso ogni accentramento artistico e credeva che il genio delle diverse regioni italiane dovesse liberamente estrinsecarsi nel campo ove aveva fiorito. Il Sella sostenne efficacemente l’intero progetto, come relatore della Commissione, tessendo la storia delle diverse fasi per le quali era passato, e dimostrando la necessità che Roma soprattutto, perché sede della religione, fosse anche sede della scienza nelle sue possibili lotte con quella. Perciò chiedeva pure che il Parlamento non rifiutasse i tre milioni per il palazzo delle Scienze. Ribattendo le confutazioni dell’on. Martini, sul danno che poteva venire all’arte dall’accentramento in Roma, citava l’esempio delle altre nazioni che avevano qui pensionati artistici, e pure l’arte in quei paesi conservava l’impronta del genio proprio e le tradizioni proprie, e leggeva un brano del Winckelmann, che diceva non potersi avere buona educazione artistica altro che in Roma. L’onorevole Sella terminava ricordando quanti sacrifizi i vecchi parlamentari avevano fatto per aver Roma.

«Il lavoro del primo decennio», aggiungeva, «è stato molto, ma il programma del secondo deve essere di portare la capitale d’Italia a quel decoro che il nome di lei e il grande passato esigono».