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Un’altra questione eterna, come tutte quelle che riguardano Roma, era sorta a Torino nel seno del quarto Congresso artistico, che si tenne nel maggio in quella città. Al Congresso era stato proposto che le esposizioni, da quel tempo in poi, invece di essere circolanti fossero permanenti, e dovessero tutte farsi a Roma, ove Governo, municipio e provincia avevano stanziato somme per l’erezione di un palazzo di Belle Arti. Quella proposta fu respinta, e venne invece accettato un ordine del giorno puro e semplice del Martini. In conseguenza di quel voto i romani, i napoletani e i siciliani che assistevano al Congresso, lasciarono l’aula e affidarono a Rocco de Zerbi la cura di redigere una protesta, che è la seguente:
«Stamane, discutendosi nel quarto Congresso artistico della utilità e della importanza dei congressi, il signor Buongiovannini ha proposto un ordine del giorno il quale dicea che i congressi, per essere utili, debbono non contradire alle loro precedenti deliberazioni, quando l’esperienza non lo abbia ancora consigliato; ed aggiungeva che si avesse a nominare una commissione con l’incarico di caldeggiare quelle deliberazioni.
«Dopo viva discussione, quest’ordine del giorno venne implicitamente respinto con l’approvazione dell’ordine del giorno puro e semplice.
«I sottoscritti, desumendo da ciò la vita effimera delle deliberazioni dei congressi, che a priori debbono potersi contradire senza averne un motivo, credendo inutile di perder tempo a far oggi ciò che s’ha a disfare domani, disfacendo pur oggi quel che ieri fu fatto, preferiscono ritirarsi dalla prima sezione del Congresso medesimo, lasciando alla maggioranza tutta la responsabilità delle sue deliberazioni».
I siciliani e i napoletani si unirono ai romani nella protesta, perché nel Congresso di Napoli del 1877 era stato appunto deliberato che le esposizioni dovessero essere permanenti a Roma, accordando, in via eccezionale, che se ne tenesse una a Torino nel 1880.
Il concetto che aveva guidato il Martini nell’opporsi alle esposizioni permanenti a Roma, era quello del decentramento, parola che suona male trattandosi d’arte, ma che rispondeva a una idea giusta. Egli non voleva che le tendenze artistiche delle diverse regioni d’Italia potessero modificarsi a Roma, che avrebbe a lungo andare imposto il gusto proprio agli artisti di tutto il regno. Egli voleva conservate quelle tendenze e quelle scuole, che ebbero in arte un passato glorioso. Ma a Roma si rimpiccoli la questione e se ne fece un ripicco di campanile, volendo far supporre che il voto fosse contrario alla supremazia di Roma sulle altre città italiane. Il Congresso aveva voluto che l’esposizione del 1882 si dovesse tener qui, ma intanto mancava il palazzo per accoglierla. Il sindaco Ruspoli era dimissionario, ma volle, prima di lasciare il Campidoglio, metter mano alla costruzione. Con molta sollecitudine, egli ottenne dal Governo la cessione dell’area, e il 6 giugno, nella ricorrenza dello Statuto, il Re poneva la prima pietra dell’edifizio di via Nazionale. Sulla lapide che fu calata nello scavo era incisa la seguente iscrizione:
s. p. q. r.
regnante umberto i
il comune
concorrendovi provincia e governo
fondò l’edificio
consacrato all’esposizione di belle arti
nazionale permanente
vi giugno mdccclxxx