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Alla metà di marzo morì Michele Lazzaroni, e il trasporto sontuoso che gli fu fatto e il testamento lasciato da lui dettero luogo a una infinità di comenti. Le ricchezze accumulate da quell’uomo meravigliarono tutti; l’eredità si faceva salire a somme favolose e favolosi i tesori riuniti in via dei Lucchesi.

Questi avvenimenti cittadini erano un diversivo dalle mille questioni, che tenevano continuamente agitata la città, perchè turbavano tanti interessi.

Il dì 11 marzo vi fu la commemorazione di Mazzini, e anche questo fatto interessò Roma.

Un manifesto stampato a cura delle associazioni repubblicane, invitava le altre associazioni e società operaie a partecipare alla cerimonia al Campidoglio. La questura proibì l’affissione del manifesto e sorvegliò la sede delle associazioni in via Montecatini, ove il Dovere aveva i suoi uffici.

I dimostranti non erano molti in principio, ma il loro numero crebbe per via, e molti curiosi li seguirono tanto più perchè si prevedeva che la cosa non finisse liscia. Nel palazzo dei Conservatori, ove era il busto di Mazzini, non si lasciarono entrare altro che una decina di rappresentanti e dalle guardie vennero strappate alcune corone, fra le quali una del comitato delle Alpi Giulie, che era una emanazione dell’Italia Irredenta. Ne nacque un tafferuglio e si udirono grida sediziose. Il Fratti, che era fra gli ammessi nel palazzo, pronunziò un discorso esaltante l’opera di Mazzini, che chiamò Padre della Patria. Dopo di lui parlarono nello stesso senso, ma con minor moderazione il Marconi e il Pomponi e anche il De Luca Aprile, pur affermando di non essere repubblicano.

Terminati i discorsi i deputati stavano per uscire dal palazzo dei Conservatori, quando furono fermati dalle guardie, che arrestarono il Fratti. Un cordone di guardie e carabinieri impedì ai dimostranti di scendere in massa per la gradinata che mette al Fòro romano, dietro al Fratti, che era condotto in questura dai delegati e dalle guardie. Intanto una compagnia di fanteria schierata sulla piazza del Campidoglio, costrinse i dimostranti a sciogliersi in piccoli gruppi.

Il Fratti, tradotto dinanzi al tribunale, fu condannato a due mesi di carcere per le parole sovversive pronunziate all’uscire dal palazzo dei Conservatori.

Fece le spese dei discorsi della città anche il restauro della sala per i matrimoni al Campidoglio.

Il tempietto d’Imene fino a quel tempo era abbastanza brutto e disadorno. Il damasco rosso, nel quale era intessuto lo stemma del comune, le ricche portiere, le dorature e i fiori di cui era stata ornata la sala, destarono l’ammirazione dei cittadini, poco assuefatti a veder gli uffici pubblici arredati con tanto lusso.

Quell’anno i romani ebbero un altro motivo di distrazione: Ismail Pascià, il magnifico vicerè egiziano, sotto il cui governo erasi compiuto il taglio dell’istmo di Suez, era venuto esule in Italia e aveva stabilito alla Favorita, a Napoli, il suo soggiorno. Egli venne a Roma in primavera per vedere la città e visitare il Re e la Regina, che lo riceverono con molta cortesia quasi avessero voluto dimostrargli quanto gli erano grati delle belle accoglienze fatte in Egitto a tanti italiani. L’ex-Kedivè abitava all’albergo Bristol, ore dette un pranzo ai ministri e al sindaco; egli vi si trattenne poco tempo, ma prima che terminasse l’anno prese stabile dimora al villino Telfner, magnificamente addobbato per lui all’uso orientale, e portò qui i cavalli e la servitù e un numeroso seguito di antichi dignitari della sua corte.

In primavera venne pure a Roma la principessa ereditaria di Germania, che viaggiava in istrettissimo incognito sotto il nome di contessa di Lingen. Appena giunta al palazzo Caffarelli ella fece