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L’inchiesta fu pubblicata ed erano così gravi i danni che rivelava, che l’on. Martini nel suo giornale stampò su quel fatto queste parole di fuoco:


«Il ministro dell’istruzione pubblica, in ossequio ad una deliberazione della Camera elettiva, ha pubblicato la relazione della Giunta di inchiesta sulla biblioteca Vittorio Emanuele. Legga chi vuole quel documento: e proverà ciò che noi non siamo capaci di esprimere: sensi di dolore, di sdegno, di dispetto, di vergogna; tanto manifesti appaiono e lo sperpero del danaro pubblico e il dispregio del decoro nazionale e la insipienza e la negligenza di chi resse per cinque anni quell’istituto.

«Se più che l’amor degli studi e la cura dei nostri tesori bibliografici, ci occupasse l’animo il misero desiderio delle soddisfazioni personali, avremmo di che fregarci le mani; primo fra’ giornali, il Fanfulla della Domenica accennò al babelico disordine della Vittorio Emanuele, ai furti che vi si perpetravano, avvertiti e non puniti. Ci contradissero con sonora impudenza. E noi desiderammo che per smentirci non fosse necessario mentire, che la Giunta d’inchiesta provasse le nostre esser fisime, e noi tratti in inganno da amorevoli timori. Ma pur troppo non andò cosi; pensavamo che il danno fosse di uno, la relazione viene a dirci che fu di mille».


Il 2 luglio per ordine del regio commissario, professor Cremona, la biblioteca fu chiusa per tre mesi a fine di verificare danni e abusi.

Il lavoro che si fece allora fu serio e proficuo; abili bibliotecari furono chiamati da più parti d’Italia a riordinare la Vittorio Emanuele, e il Cremona ottenne dal ministro Guardasigilli che fosse depositata in quella biblioteca una copia di tutte le pubblicazioni nazionali, per modo che da quel giorno la Vittorio Emanuele contiene tutto ciò che si scrive in Italia. Questa misura mentre alleggeriva il bilancio della biblioteca, l’arricchiva immensamente, cosicchè adesso chi volesse fare un lavoro sulla produzione intellettuale dell’Italia presente, troverebbe colà tutto ciò che gli occorre.

Un’altra quistione noiosa e scabrosa era quella della Farnesina. Il duca di Ripalda, attuale affittuario del palazzo eretto dai Chigi, chiedeva al Governo 1,200,000 lire come indennità d’espropriazione e il tribunale condannò il Governo a pagare quella somma. Mentre peraltro i due litiganti erano dinanzi ai giudici, sorse un terzo: don Francesco di Borbone, ex-Re di Napoli, il quale essendo proprietario della Farnesina, reclamava per sè l’indennità e aveva nominato suo rappresentante don Marcantonio Borghese.

Il Governo, prima che la causa andasse al tribunale, aveva offerto 200,000 lire, che non vennero accettate. Allora furono nominati tre periti, cioè i signori Amedei, Rebecchi e Innocenti affinché stabilissero la somma da pagarsi al duca di Ripalda come correspettivo del terreno da espropriarsi. I tre periti stabilirono che la somma dovesse essere di 723,000 lire, che il Governo si affrettò a consegnare alla cassa depositi e prestiti, e la prefettura ordinò l’espropriazione. Il duca non volle ritirare la somma e portò la causa davanti al tribunale, il quale nominò i periti Agruzzi, Marucchi e Francisi, che elevarono la somma di espropriazione a 1,400,000 lire. Il tribunale fece una tara, contro la quale interposero ricorso gli avvocati del duca di Ripalda. Alla complicazione del proprietario, protestante contro i diritti accampati dal duca, che aveva la proprietà in enfiteusi per 90 anni, se ne aggiungeva un’altra; nel sottosuolo della Farnesina si scopriva un tesoro d’arte, sul quale il duca chiedeva un prezzo. Il tribunale rigettava la pretesa, ma la causa veniva portata davanti alla Corte d’Appello, la quale con sentenza del 23 giugno fissava l’indennità in lire 723,954, ammettendo che non se ne dovesse dare alcuna per i tesori artistici trovati nel sottosuolo, poichè già erasi fatta l’espropriazione.

Una quistione venne pure provocata dal contratto concluso fra il municipio e il signor